// homepage / Testimonianze / Testimonianza di una ragazza bulimica

Testimonianza di una ragazza bulimica

 

E’ strano come per tutta la vita ci si possa sentire soli, desolatamente soli. Poi d’un tratto entra nella tua qualcosa che ti fa sentire meno sola, ma allo stesso tempo t’isola da tutto e da tutti. Diventa la tua compagna, la tua migliore amica, parte di te, ma nello stesso tempo ti succhia tutte le energie, la vita stessa, facendoti allontanare da tutto e tutti.
 
Questo è stato per me la bulimia. Quella che qualcuno chiama Mia.
 
Voglio raccontare e rivivere come ho conosciuto la bulimia e come sia diventata parte di me. Lo voglio fare per me stessa, soprattutto, ma anche per essere di monito e aiuto a chiunque si trovi nella mia stessa situazione.
 
Ad un certo punto della mia giovane vita ho cercato di staccarmi da quella che era una vera e propria ossessione, che mi soffocava. Ho letto libri, navigato in internet, seguito trasmissioni televisive per capire come poter rompere questo circolo vizioso in cui ero caduta. Eppure ogni volta restavo con l’amaro in bocca. L’unica cosa che mi era chiara, era che questo mio malsano rapporto di simbiosi con la bulimia nasceva da un malessere interiore così profondo da farmi rivoltare contro me stessa, contro il mio stesso corpo, fino a volermi distruggere.
La bulimia era diventata la mia malattia. Una sanguisuga che si nutriva di me, del mio corpo ma soprattutto della mia mente, lasciandomi vuota e stanca.
M’identificavo con essa, eppure ora, dopo quasi dieci anni, ho capito che io non sono la bulimia, io sono me stessa ed esisto, così come sono, a prescindere da essa.
 
Ho sempre amato molto la scrittura ma non ho mai cominciato veramente a scrivere, prima d’ora. Anche perché la bulimia non me lo permetteva. Mi faceva credere che sarebbe stato tempo rubato ad altro e non potevo permettermelo. E’ stato un grosso errore. Non bisogna mai lasciare che qualcosa c’impedisca di fare ciò che amiamo, di seguire i propri sogni. Il rischio è quello che una parte del nostro cuore si inaridisca e poi muoia, incapace di dare amore.
 
E’ difficile stabilire quando è cominciato tutto. I ricordi sbiadiscono, fuggono via e arrivano solo dei frammenti a volte, a volte pagine intere.
 
Ma cominciamo con ordine, prima che la bulimia s’insinuasse nella mia vita.
La mia è una storia normale, come tante, credo.
Mia madre restò incinta piuttosto giovane, si sposò sia per amore ma anche perché all’epoca non aveva molta scelta. Così nacque mio fratello. Dopo qualche hanno l’amore, forse troppo acerbo, finì e mia madre si ritrovò sola, con un bambino piccolo da crescere.
Il paese è piccolo e la gente mormora. Probabilmente non le sembrò vero di conoscere un altro uomo, mio padre, che volesse lei e il suo bambino.
Così, da questa relazione, forse un po’ improbabile, nacqui io. Per far tacere la coscienza collettiva, i miei genitori si sposarono quando io avevo ormai tre anni.
La vita in casa non era delle migliori. I miei genitori litigavano raramente. D’altronde non si parlavano quasi mai. Sembravano due estranei che vivevano in un albergo.
Mio padre lavorava per un’azienda statale. A causa di un incidente con un macchinario agricolo aveva perso tre dita della mano destra e non poteva più fare lavori manuali.
È sempre stato un uomo robusto e diabetico, mio padre. Più vecchio di mia madre di diversi anni. Quando nacqui io era vicino ai quarant’anni e già fisicamente poteva sembrare mio nonno.
Una volta sposati, mia madre, per volontà di mio padre, lasciò il lavoro per fare la casalinga. Lei è sempre stata molto dolce, quasi remissiva, sottomessa a mio padre, benché lui non mettesse mai le mani addosso a me o a lei. La sua era una violenza psicologica. A volte se la prendeva con mio fratello, probabilmente perché non era suo figlio.
Ero cicciotella, come mio padre e che quando andai all’asilo dovetti mettere gli occhiali da vista, per completare l’opera. Mi sentivo goffa e inadeguata.
Ero timida, paurosa e non avevo amici. Nei dintorni di casa non c’erano altri bambini con cui fare amicizia e mio padre non gradiva che ci fossero altri bambini per casa. Mi sentivo così sola, esclusa. Mi sentivo diversa.
Con mio fratello andavo relativamente d’accordo. Con quasi dieci anni di differenza sarebbe stato difficile avere un rapporto di complicità. Però giocavamo insieme a volte.
L’atmosfera in casa era molto particolare. Tornavo da scuola, toglievo subito gli occhiali, che per me erano un incubo, mangiavo, studiavo, giocavo sempre da sola o con mia madre mentre mio padre era a lavorare oppure dietro casa a fare bricolage o giardinaggio. Non ho molti ricordi di giochi o svaghi. La mia compagna era la televisione, almeno finché non imparai a leggere e mi si aprì il modo nuovo e meraviglioso della lettura.
Avrei preferito che al posto del grande orto dietro casa ci fosse stato un giardino verde in cui correre e al posto dei cani da caccia addestrati e rinchiusi nei box ci fosse un piccolo cucciolo tutto per me che scorazzava felice. Per fortuna però i gatti non mancavano mai a casa mia. Arrivavamo ad averne anche una dozzina. Però a mio padre non piaceva che entrassero in casa, per cui in sostanza vivevano fuori. Il loro compito era cacciare i topi. A volte, quando lui non c’era, li facevo entrare di nascosto, per potermeli godere un pochino in santa pace.
Per anni mio padre mi promise che quando avesse smesso di andare a caccia, avrebbe preso un cane di piccola taglia. Lui tuttora va a caccia e io starei ancora aspettando. Credo che per lui tutto si riducesse all’utilità degli animali, non al piacere della loro compagnia. Il veterinario non veniva mai chiamato, neanche nei casi estremi. Spesso i gatti finivano investiti da una macchina, poiché abitavamo su una strada molto trafficata, o avvelenati da esche per topi e i cani che si ammalavano di tumore non venivano curati ma lasciati morire o abbattuti.
Quando vivevamo ancora tutti insieme, a pranzo e a cena bisognava restare in rigoroso silenzio, mentre mio padre seguiva il telegiornale. Non si parlava molto a tavola e c’era sempre la televisione accesa. Avevamo un televisore quasi in ogni stanza!
Adoravo il pane e gli yoghurt alla frutta per bambini! Ho una bellissima polaroid che mi ritrae, con due codini biondi e spavaldi, seduta sul pavimento della cucina, con un’enorme pagnotta tra le mani, mentre sorrido all’obiettivo.
Non andavamo mai fuori a cena o a mangiare la pizza, perché secondo mio padre costava troppo ed era una spesa inutile. Allora quando lui faceva il turno di notte mia mamma andava a prendere la pizza e la coca cola per me lei e mio fratello e mangiavamo di nascosto.
Abitavamo in una villetta piuttosto grande, a due piani. Era ed è tuttora molto bella, ma l’uso di alcune stanze ci era precluso. Allora perché farla così grande, pensavo io.
Mia madre dormiva in camera con me, perché da piccola avevo avuto una malattia e lei restava accanto a me notti intere a vegliarmi. Da quella volta non è più tornata a dormire con mio padre.
La sera mio padre restava in cucina a vedere la televisione, mentre noi tre ci trovavamo in camera mia, tre in due letti, a guardare la televisione. In mezzo ai due letti c’era un comodino dove nascondevamo i biscotti. Così, guardavamo la televisione e mangiavamo biscotti di nascosto. Ad una certa ora mio padre passava davanti a camera mia, apriva la porta, ci guardava senza dire nulla, poi la richiudeva e andava via.
Una sera, credendo che io dormissi, mia madre disse a mio fratello che lei non mi avrebbe voluto avere ma che non avrebbe mai abortito. Era stato mio padre a volermi e a fare in modo che io venissi concepita. Fu un dolore che mi sono portata dentro per diversi anni
Tutti gli anni andavano al mare in un piccolo paese, le prime due settimane di Luglio, nell’appartamento di un collega di mio padre. Ricordo ancora quel piccolo trilocale e quando ci passo davanti tuttora gli rivolgo un sorriso. Tutte le estati mi tagliavano i capelli corti corti, a maschio! Purtroppo mia madre e mio fratello non potevano soffrire il sole, così spesso andavamo in spiaggia solo io e mio padre.
Sono sempre stata brava a scuola ma per mio padre non era mai abbastanza. Se prendevo “buono” invece che ottimo, anziché lodarmi mi guardava e chiedeva: “ come mai, cosa è successo?” e a me sembrava di aver preso insufficiente.
Finalmente, quando compì nove anni mia madre decise che ero abbastanza grande per capire e chiese la separazione da mio padre.
Toccai il cielo con un dito! Finalmente sarei andata via da quella casa triste e da questo padre così severo, buio, quasi un orco.
Però mi sentivo diversa, perché i miei erano gli unici genitori, tra i miei compagni di classe, ad essere separati. Le maestre si preoccuparono molto per me, in quel periodo.
Il giudice grazie al cielo mi affidò a mia madre. Dovevo andare da mio padre a fine settimana alterni, per Pasqua o Natale e due settimane in estate.
Così mi ritrovai a programmare i miei fine settimana di adolescente cercando di evitare gli impegni quando ero con mio padre, perché lui non voleva. Oltre a questo mi ritrovai ad andare con mio padre in ferie al mare fino ad adolescenza inoltrata. Quando l’appartamento fu venduto la tradizione finì. Mi sarebbe piaciuto che fosse mio padre a comprarlo.
Conobbi anche dei coetanei in spiaggia, con cui mi ritrovai per diversi anni, ma ero impacciata e goffa. Con gli anni ci perdemmo di vista, anche se tuttologi abitano a pochi chilometri da me.
Ogni volta che poteva mio padre mi parlava male di mia madre, mio zio, mia nonna, mio fratello. Mia madre non ha mai detto nulla di male su mio padre. Tra l’altro non serviva, ero perfettamente in grado di giudicarlo da sola.
Dopo la separazione io, mia madre e mio fratello andammo a vivere a casa della nonna materna. Anche lì non fu facile. Mia nonna, vedova, era una donna di altri tempi. Persino più rigida di mio padre. Da lei non si poteva stare in camera da letto durante il giorno, non si potevano tenere animali ed era meglio non invitare gli amici. Insomma ero caduta dalla padella alla brace.
Fu lei che mi mise le mani addosso per la prima volta in vita mia. Per fortuna fu anche l’ultima. Non ne ricordo neppure il motivo, eppure brucia ancora.
Mia madre nel frattempo aveva ripreso a lavorare e a guidare la macchina. Dopo circa un anno e mezzo lasciammo la casa della nonna, che viveva molto meglio sola, e mia madre prese in affitto un piccolo appartamento malandato. Però costava poco, era tranquillo e vicino al centro.
Lì ho vissuto tante esperienze importanti ed è lì che per la prima volta ho aperto la porta alla bulimia.
Gli anni intanto passavano e arrivò il tempo delle scuole superiori.
Ero notevolmente grassa. Il cibo mi teneva compagnia, specialmente davanti alla televisione.
Ero già passata da diversi dietologi, dietisti e nutrizionisti, ma dopo un calo di peso iniziale, mi stabilizzavo e non avevo più la forza di continuare delle diete che non capivo. Semplicemente non mi interessava dimagrire. Nel fine settimana in cui dormivo da mio padre, poi, lui non mi faceva mai seguire la dieta.
Alle scuole superiori sperimentai le prime cotte e le prime delusioni di cuore.
Non avevo un ragazzo, nessuno mi voleva. Mi sentivo brutta e non degna di amore. Mi guardavo allo specchio e scoppiavo a piangere. Avrei voluto prendere i rotoli di ciccia e stapparmeli di dosso con le unghie.
Vedevo le mie compagne di classe così magre, così belle e ammirate. Anche se spesso ero più brava di loro negli studi e davo loro ripetizioni.
Ero piuttosto brava a scuola e davanti a me si apriva un futuro di successo, o almeno così tutti credevano.
Mi presi una cotta per il secchione della classe e persino lui non ne volle sapere di me. Dopo tanti anni ci ritroviamo ancora ogni tanto e sorrido al pensiero dei miei sentimenti passati.
Quando finivo scuola, mio padre mi veniva a prendere alla stazione tutti i santi giorni, così non potevo neanche fare delle nuove amicizie. Mi sentivo bloccata dentro il mio guscio. Non avevo la forza per tenere le distanze da mio padre. Lo studio non mi lasciava tempo per altre attività pomeridiane.
Per fortuna a scuola incontrai quella che tuttoggi considero la mia migliore amica e altre amiche con cui i rapporti sono rimasti saldi da allora.
Ad un certo punto, decisi che per avere successo ed essere accettata dovevo assolutamente dimagrire e dovevo farlo in fretta.
Per prima cosa iniziai una dieta di quelle che si trovano sui settimanali femminili: la dieta del minestrone. Io, che odiavo le verdure, mi nutrivo solo di minestrone e frutta. Cominciai a calare di peso velocemente però dopo qualche tempo non ce la facevo più a mangiare minestrone, così eliminai anche quello e cominciai a nutrirmi solo di mele.
In poco tempo persi dieci chili. Ma non era abbastanza. Fu attraverso la televisione che conobbi la bulimia.
Sapevo che poteva essere pericolosa ma in quel momento era la soluzione a tutti i miei problemi.
Potevo finalmente mangiare tutto quello che volevo, senza paura di ingrassare. La bulimia mi aiutava a svuotarmi, a smaltire le troppe calorie ingerite.
In breve tempo, dimagrii 40 chili.
Ero felice, perché il mio corpo si assottigliava, potevo mettere quei bei vestiti che portavano la mie amiche e non solo enormi maglioni sformati. E non ero più sola. La bulimia era una compagna, una cosa solo mia.
Ero in paradiso! In discoteca i ragazzi cominciavano ad avvicinarsi! Mi sentivo di assomigliare di più a tutti gli altri. Mi sentivo invincibile.
Però cominciai a sentirmi debole, a soffrire di crampi notturni, di svenimenti. Ad educazione fisica non riuscivo più nemmeno a saltare la trave perché i muscoli non mi reggevano. In quarta superiore non riuscivo più a studiare, arrancavo e volevo mollare la scuola. Così mia madre parlò con il preside, anche per spiegare le mie continue assenze e io parlai con gli insegnanti. Era umiliante dire ai miei insegnanti che ero bulimica. Devo dire che pochi capirono la mia situazione ma conclusi piuttosto bene la classe quarta, passai la quinta quasi di rendita e uscii dalla scuola con un ottimo punteggio, nonostante lo spettro della malattia
Nascondevo le tracce della bulimia, sperando che nessuno se ne accorgesse. Sapevo che nessuno avrebbe approvato il mio comportamento. Nessuno capiva la malattia e nessuno capiva me. Solo io e Mia ci capivamo perfettamente. Quando andavo in bagno a vomitare aprivo un rubinetto o attaccavo la centrifuga della lavatrice per non far sentire i rumori della vomitata, dopo stavo attenta a pulire bene tutto e a lavarmi i denti.
Finché un giorno mia madre aprii la porta del bagno e mi chiese da quanto tempo andavo avanti così. Fu il momento più umiliante della mia vita.
Era da qualche tempo che sospettava che vomitassi tutto quello che mangiavo e aveva ragione.
Ricordo che la domenica pomeriggio andavo in discoteca con le amiche. Allora, siccome volevo essere magra, mi facevo preparare solo una minestrina a pranzo e poi vomitavo anche quella. Io volevo trovare un ragazzo, per non essere più sola, per essere amata, coccolata, considerata e credevo che se fossi stata magra avrei avuto più probabilità di essere notata.
 
In realtà avevo così tanto bisogno di essere amata che feci l’errore di far entrare nella mia vita qualunque ragazzo mostrasse un po’ di interesse per me. Mi sembrava così incredibile che qualcuno mi trovasse amabile e carina.
Naturalmente così mi facevo solo del male. Non ero in grado di scegliere le persone con cui relazionarmi e ancora oggi ho serie difficoltà nelle relazioni.
Il primo ragazzo che baciai fu un ragazzo alto alto e biondo ossigenato, che incontrai in discoteca. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Venne anche a trovarmi ed ebbi con lui i miei primi, inesperti e non proprio piacevoli contatti intimi. Gli feci anche un regalo per il suo compleanno. Ero proprio un’ingenua. Avevo perso la bussola. Quando un ragazzo in discoteca si sentì male scoprii che Giacomo era uno spacciatore e consumatore abituale di pasticche. Lo cercai ancora dopo quell’episodio. Lui non si fece trovare e finì li. Solo dopo mi resi conto di aver corso dei seri pericoli con lui e di essere stata molto fortunata. La bulimia non mi abbandonò mai in quei momenti. Era sempre lì, pronta a consolarmi, senza giudicarmi.
Eppure mi sentivo sfortunata, respinta. Neanche uno così mi voleva.
La mia vita continuava. Studiavo e uscivo con le mie amiche. Finché una sera incontrai un ragazzo del paese che conoscevo da anni.
Lui naturalmente non mi conosceva o perlomeno non mi riconosceva. Con un trucchetto mi prese il numero di telefono e cominciò a mandarmi messaggi. Mi disse che era stato folgorato da me.
All’inizio non mi sentivo attratta da lui, perché era in sovrappeso e a dirla tutta credevo fosse omosessuale. In realtà molti lo credevano e tuttoggi non saprei dire se lo sia oppure no.
Però mi sentivo lusingata dalla sua corte e da come mi corteggiava. Così accettai un suo invito a uscire ed iniziai con lui una storia molto controversa che durò circa tre anni.
Ecco, pensavo, si è accorto di me perché sono diventata magra e sono diventata magra grazie alla bulimia. Senza gli effetti che essa portava, lui non si sarebbe mai accorto di me.
Chissà cosa sarebbe successo se non avessi accettato il suo invito. È buffo, la bulimia assomiglia molto al canto ingannatore delle sirene.
Mio padre però non lo poteva soffrire e io non riuscivo a legare con i suoi amici. Litigavamo spesso per questo. Non riuscivamo ad avere rapporti intimi e in breve per i suoi amici divenni “La mummia”. Lui era un vulcano quando eravamo in compagnia e io mi rintanavo in un angolino, a fare da attaccapanni. Ad onor del vero non è che i suoi amici facessero molto per farmi sentire a mio agio.
I primi tempi non gli parlai mai dei miei disturbi alimentari.
Mia madre, preoccupata del mio rapporto esclusivo e distruttivo con la bulimia mi convinse a chiedere aiuto per trovare un modo per guarire. Mi capitò anche di svenire nelle situazioni più impensate, come in gita scolastica. Che vergogna! O peggio ancora in treno mentre ero in vacanza lontano da casa con un’ amica! Doppia vergogna! Dovettero venirmi a prendere in piena notte all’ospedale.
Però sentivo il bisogno di questa malattia e non riuscivo a smettere, non potevo e non volevo. Mia madre s’informò, prese un appuntamento e mi accompagnò ad un centro per disturbi alimentari vicino casa, sperando che mi potessero aiutare.
Avevo 17 anni.
Decisi di dire al mio ragazzo della bulimia e di spiegargli che cercavo di guarire. Lui non batté ciglio e accettò la mia situazione. Avevo molta paura che una volta saputo della malattia mi avrebbe lasciato, ma non fu così.
Così cominciò il mio percorso, lungo, faticoso e per certi versi solitario verso il distacco dalla bulimia.
 
Iniziai le mie visite al centro. Mi sentivo etichettata e non era facile rispondere alle domande intime e precise che mi venivano poste.
Per un certo periodo fui seguita da una dottoressa. Era giovane, simpatica e mi dava del tu. Però non faceva per me. Con lei non riuscivo a parlare. Mi sembrava che parlasse sempre lei. Ricordo che allora il centro si trovava in un luogo un po’ nascosto, intimo e raccolto. C’erano anche delle riviste da leggere mentre aspettavi. Lo preferivo alla corsia d’ospedale così fredda e scoperta dove si trova tuttora. Mi sembra sempre che tutti mi guardino come se avessi scritto sulla fronte “bulimica”. Sicuramente non è così, però è come mi sento.
 
Forse non ero ancora pronta. Forse allora la malattia mi serviva ancora. Seguivo le istruzioni e il percorso. Per un periodo riuscii a staccarmi dalla bulimia, ma poi cominciai a mentire e a dire che non facevo più abbuffate e non vomitavo più ma non era vero.
Seguii degli incontri di gruppo con altre ragazze che avevano problemi simili al mio, ma mi sentivo a disagio. Cominciai a scrivere il diario alimentare. Lo odiavo e sinceramente tuttoggi non lo sopporto. Feci mucchi di test sulla personalità. Mi sentivo una cavia da laboratorio e a volte non capivo come tutte quelle cose avessero a che fare con la mia dipendenza dalla bulimia.
 
Mia madre, nonostante il lavoro, riuscì per un periodo a frequentare i gruppi di sostegno per i genitori. Mio padre andò una volta e poi mai più. Tanto aveva sempre ragione lui e tutti gli altri non capivano niente.
Già, mio padre… Mio padre che prima mi diceva che ero grassa e poi, una volta dimagrita, che non avevo più il sedere. Onestamente mi dava fastidio che mio padre mi guardasse il fisico e mi giudicasse. Mi metteva a disagio. Commentava sempre l’aspetto delle mie amiche, mi confrontava con loro.
 
Ricordo quando decisi di parlargli della bulimia, su consiglio di mia madre. Non gli avevo mai parlato di me. Ricordo che eravamo soli, a casa sua, sul divano. Gli raccontai della bulimia e che volevo guarire. Lui pianse e mi abbracciò.
In quel momento ne fui contenta, ma col tempo quell’abbraccio per me diventò come il bacio di Giuda.
Infatti, da allora cominciò a controllare cosa facevo e con chi mi vedevo. Non lo sopportavo. Non mi aiutava così!
Mio nonna mi disse che se non mi liberavo della bulimia sarei rimasta una disgraziata per tutta la vita. Che bel sostegno. Comunque non credo che la mia povera nonna, succube di mio padre, abbia mai capito cosa sia veramente la bulimia. Mio padre a tavola mi controllava quanta acqua bevevo e mi fermava se secondo lui bevevo troppo per poi vomitare meglio. Stava ad origliare se andavo in bagno e mi diceva che quando entrava in bagno dopo di me, c’era un odore che gli sembrava che io gli avessi vomitato in faccia. Mi sentivo umiliata.
 
Per un certo periodo uscii dalla bulimia, credevo di essere guarita definitivamente e a diciannove anni decisi di farmi un tatuaggio come simbolo della mia guarigione. Una farfalla, simbolo di nuova vita.
Però poi ci ricascai e non volli più andare dalla psicologa. Era magra, non avevo più massa muscolare, avevo la gola così gonfia da sembrare un criceto e sulla mano destro portavo i segni dei denti, a causa degli sforzi che facevo per vomitare.
 
Nel lungo percorso, che ormai dura da circa 10 anni, mi sono accadute tante cose.
Mio fratello si è fidanzato, è andato a convivere, poi ha avuto un figlio e infine si è sposato, andando ad abitare in un’altra provincia.
Mia madre nel frattempo avevo cominciato a frequentare degli uomini e aveva conosciuto il suo attuale compagno.
Quell’uomo non mi è mai piaciuto. Col senno di poi probabilmente avevo ragione ma all’epoca forse ero solo gelosa.
Nello stesso periodo il mio rapporto con il mio ragazzo si stava spegnendo, mi diplomai e iniziai a lavorare.
Mia madre, convinta che il mio ragazzo sarebbe venuto a convivere con me, andò a vivere con il suo compagno. Pochi mesi dopo io lasciai il mio ragazzo dopo tre anni passati insieme e mi trovai a vivere e a mantenermi da sola a diciannove anni.
Dopo qualche mese che ero single il compagno di mia madre si presentò a casa mia con rose e pasticcini, intenzionato ad insegnarmi i segreti del sesso. Lo respinsi e mangiai e vomitai tre giorni di fila. Mi faceva schifo. Non dissi nulla a mia madre.
Per un lungo periodo provai rancore per mia madre. Scaricavo tutto il mio dolore attraverso la bulimia ma non potevo continuare così. Così ritornai al centro per i disturbi alimentari e cambiai terapeuta. Con questo nuovo dottore, che mi segue tuttora, iniziai il percorso che mi ha portato dove sono ora. Forse lui era la persona giusta o forse finalmente io ero pronta a chiudere definitivamente con questo calvario. Questo non significa che il mio percorso da quel momento fu tutto in discesa, ma fu un nuovo inizio.
 
 
In questi anni ho sempre convissuto con la bulimia. Era un rapporto deleterio, che mi prosciugava le forze. Il mi primo lavoro fu presso uno studio di un commercialista che mi contattò, grazie al voto con cui mi ero diplomata e lavorai lì per due anni. Stavo bene, avevo delle colleghe meravigliose, però il lavoro era un po’ monotono e volevo avvicinarmi a casa.
In quegli anni frequentai un gruppo serale di auto mutuo aiuto misto. Fu una esperienza molto bella e intensa e ancora oggi ricordo molte delle persone che conobbi lì. Era un gruppo misto, non specifico per i problemi alimentari. C’erano alcolisti, persone depresse, sole però ci si confortava e si parlava senza giudicare. Io ero la più giovane e l’unica ad avere problemi alimentari. Lì conobbi un ragazzo che faceva il militare di carriera in un paese vicino al mio. Per un po’ ci frequentammo ma non era il mio tipo e con il tempo ci allontanammo.
Grazie alla segnalazione di una mia amica, trovai impiego come segretaria in una ditta edile artigiana del mio paese.
Qui all’inizio ero in crisi perché ero sola e il lavoro era nuovo. Ogni volta che ero in crisi ricorrevo alla bulimia. Lei c’era sempre, mi aiutava a scaricare lo stress. Era come tornare a casa.
Al lavoro nessuno si accorgeva di nulla e io non dicevo niente. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo sola al mondo, depressa e piangevo. Non mi piacevo ed ero sempre insicura di tutto.
Il lavoro era il mio mondo. Piano piano imparai molte cose, vinsi la timidezza e diventai una collaboratrice importante per l’azienda.
Lavoravo anche un paio di sere a settimana così non potei più frequentare il gruppo di auto mutuo aiuto.
Qui, dove lavoro tuttora, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo.
Con il tempo i titolari cominciarono a fidarsi di me e a darmi sempre maggiore responsabilità. Mi sentivo viva, utile ma ogni volta che sbagliavo mi sentivo di aver fallito completamente e di aver deluso i miei datori di lavori.
 
E’ un ambiente più caldo e familiare di quello in cui lavoravo prima. Col tempo uno dei soci mi prese sotto la sua ala e diventammo amici, direi. In realtà forse io vedo in lui il padre che non ho avuto e lui una figlia abbastanza grande per aiutarlo nel lavoro.
 
Quando una persona a lui vicina morì per colpa dell’anoressia, decisi di confidargli che convivevo da anni con la bulimia. Lui un po’ si spaventò, cercò di capire, di aiutarmi ma non era possibile. Dipendeva da me. Ero molto chiusa, non esprimevo i miei sentimenti e non mi fidavo di nessuno, perché nella vita avevo dovuto sempre affrontare i problemi da sola ed era l’unico modo che conoscevo.
Con il tempo imparai a fidarmi di questo uomo e il fatto di potergli parlare dei miei problemi mi dava sollievo.
Certo, c’era sempre la mia migliore amica con cui parlare, eppure lui, come uomo e come persona più esperta, a volte riesce a darmi un a visione che io non avevo preso in considerazione.
 
Per qualche mese, nell’appartamento in cui vivevo da sola, vennero ad abitare con me mia nonna, malata di Alzheimer e mio zio, mentre ristrutturavano casa. Non era facile, per me, dividere gli spazi di nuovo con altri dopo tutto quel tempo da sola e soprattutto con un’anziana malata che non distingueva il bagno dalla camera o il mio letto dal suo.
Dopo circa un anno che lavoravo in ditta, il titolare mi propose di comprarmi un appartamento usato accendendo un mutuo, invece di pagare l’affitto.
Mi sembrava una cosa impossibile. Io non avevo garanzie, avevo solo il mio lavoro. Eppure lui aveva fiducia in me. Trovai una banca disposta a darmi il finanziamento. Così a ventuno anni, divenni proprietaria di un piccolo appartamento in paese. Certo ci sono cose da sistemare, ma è stato un grande passo.
Nel corso del tempo ho avuto l’occasione di fare vari corsi, che mi compensavano del fatto di non aver potuto studiare.
Infatti, tutti si aspettavano che andassi all’università. Le cose non sono andate così, perché mi sono trovata a dover lavorare per pagare l’affitto e le spese. Mia madre non aveva possibilità economiche, mentre mio padre voleva che in cambio del suo sostegno economico io andassi a vivere da lui. Non potevo farlo. Sono convinta che se fossi andata a vivere con lui sarei impazzita o peggio. Era un prezzo troppo alto da pagare.
E in tutto questo tempo e durante le vicissitudini della mia vita, la malattia è sempre stata con me. Mi faceva stare male ma mi serviva. Mi faceva sentire diversa eppure non riuscivo a staccarmi del tutto. Certo, con il trascorrere del tempo e la terapia, le mie abbuffate non erano più frequenti e impegnative come prima. Avevo ripreso peso e una certa forza. Ma ancora non riuscivo a fare a meno di vomitare. Credevo fosse parte integrante di me. Mi aiutava a superare i momenti difficili, a mantenere il controllo. O almeno questo credevo.
 
Ho sempre creduto che i miei problemi derivassero da mio padre. Quando mi diplomai, scelse e comprò un auto per me. Me la consegnò ma era comunque sua. Prese a seguirmi, anche quando uscivo con le mie amiche e non voleva che il mio ragazzo guidasse le sua auto. E’ tua ma è mia, mi diceva.
Di notte veniva di nascosto nel cortile di casa mia per controllare se c’era la macchina, spaventando così i miei vicini di casa.
Per un lungo periodo credette che mi drogavo e mi prostituivo! Proprio io che ebbi il mio primo rapporto completo a ventuno anni suonati.
Mia madre cercava di fare da tramite ma mio padre non era gestibile. Arrivò ad organizzare una riunione con me, lui e mia madre, registrandola su audiocassetta. Io non lo sopportavo. Cosa avevo fatto di male? Lavoravo, mi mantenevo, uscivo di rado e sempre con le mie poche amiche. Non mi sono mai drogata e di certo non andavo con gli uomini. Perché mi trattava così? Perché mi tormentava? Stavo tremendamente male per questo. Mi sentivo umiliata e sminuita.
 
Così, di comune accordo anche con il mio terapeuta decisi che non potevo continuare così. Andai da mio padre, gli riconsegnai l’auto e gli dissi che non ci saremmo più visti.
Lui mi disse che confondevo l’oro con l’ottone.
Nei primi tempi cercò di telefonarmi, mi lasciò delle cose nella buca della posta e mi seguiva.
Piano piano la mia vita procedeva.
 
Comprai la macchina di mia madre a mille euro per potermi muovere. Non so come faccia ancora a funzionare! Però ci sono affezionata e non ho soldi per comprarne una nuova. Finché il motore funzionerà lei resterà con me, nonostante lo sterzo duro e la carrozzeria rovinata. In fondo è con lei che sono stata per la prima volta in vacanza da sola, al mare. Un paradiso. Indovinate dove? Ma nello stesso paesino di mare in cui andavo da bambina!
Come ho detto all’età di ventuno anni comprai un appartamento, che si trova a sole tre case di distanza da quella di mio padre. Si, può sembrare una follia, ma era un’occasione unica e non potevo lasciare che la mia paura di incontrarlo mi impedisse di realizzare i miei progetti.
L’appartamento ha trenta anni e ogni tanto l’età si fa sentire: parquet che si alza, piastrelle che cadono e altro ancora. Il mio sogno è quello di poterlo ristrutturare.
Qualche mese dopo che mi fui trasferita, andando al lavoro in bicicletta fui investita da un auto e finii in ospedale. Un taglio in testa e una vertebra lombare rotta. Seguì un lungo periodo di immobilità, riabilitazione, busto ortopedico e incontri con l’avvocato per il risarcimento. Mia madre chiamò mio padre per raccontargli l’accaduto. Avrei voluto che non lo facesse.
Così lui rientrò nella mia vita. A forza. Si presentò in ospedale e voleva portarmi a casa con se. Per fortuna mia madre non era dello stesso avviso e mi portò a casa sua. Nel frattempo mia nonna, con l’Alzheimer che progrediva, era andata a vivere con mia madre.
Di quei giorni ricordo i pianti, l’umiliazione di dover chiedere aiuto al compagno di mia madre per urinare, proprio lui che alcuni anni prima ci aveva provato con me!
Ricordo il dolore e l’immobilità, ricordo la frustrazione di non essere autosufficiente e di pesare su mia madre. In quel periodo non potevo vomitare ma non ne sentivo il bisogno.
Avevo altro a cui pensare.
In quei giorni compii ventidue anni e mio padre venne da me con dei biscotti e un libretto al portatore a mio nome. Patetico.
In tutto quel periodo, durato tre mesi, non potevo lavorare ma per non lasciare l’ufficio nel caos il titolare mi portava il lavoro a casa di mia madre e mi dotò di un computer portatile.
Fu un impegno che i titolari vollero premiare regalandomi un viaggio in Egitto alla mia guarigione. Così per la prima volta presi l’aereo e volai laggiù da sola. Fu un esperienza unica.
Così ormai la frittata era fatta e i rapporti con mio padre furono riallacciati. Cominciò a volere che andassi a mangiare da lui, criticò la mia scelta di fare un mutuo e come avevo disposto i mobili di casa.
Naturalmente continuava a controllarmi. Persino i nuovi vicini se ne accorsero. Mi vergognavo tanto!
Un giorno incontrai il mio ex ragazzo che mi disse che mio padre lo avevo fermato chiedendogli di me. Ho dovuto scusarmi con lui per il comportamento di mio padre e di nuovo provai vergogna.
 
Finché un giorno che ero a casa sua non mi diede una specie di santino, dicendomi che mi sarebbe servito perché ero drogata e andavo a letto con il mio titolare.
Non ci vidi più. Io, che mi spaccavo la schiena, che lavoravo di sera due volte la settimana per guadagnare il rispetto dei titolari e qualche soldo in più, non potevo permettermi molte cose per poter pagare il mutuo e lui veniva a dirmi quelle cose?
Cercare di scappare ma lui mi prese per i polsi, ricordo che riuscii a liberarmi e a correre via. Arrivai a casa, saltai in macchina e mi diressi verso casa di mia madre.
Su un rettilineo mio padre mi piombò alle spalle e dovetti fermare l’auto sul ciglio della strada per non finire dentro il fosso. Mi chiusi dentro l’auto. Lui cercava di entrare da tutte le porte. Io piangevo, urlavo e non vedevo nulla. Ero sconvolta. Cercai con il cellulare di chiamare i carabinieri ma non riuscivo a ricordarmi il numero. Allora chiamai mia madre, che sentendomi sconvolta, chiese al compagno di venire subito da me. Ironia della sorte.
Nel frattempo aprii un finestrino per chiedere aiuto ai passanti ma mio padre infilò dentro una mano, aprii la sicura e si sedette nel sedile del passeggero. Anche lui piangeva, ma erano lacrime di coccodrillo, pensai. Diceva che stava male di cuore. Io non ricordo cosa gli dissi esattamente. Ricordo solo che urlai e piansi finché non arrivò mia madre con il suo compagno. Provavo odio puro.
Riuscirono a farmi uscire dall’auto e mia madre parlò con mio padre. Non so cosa gli disse ma lui se ne tornò a casa e io mi rifugiai alcuni giorni da mia madre. Da quel momento decisi che non avrei mai più incontrato mio padre.
E così è tuttora, anche se a volte lo vedo che fa la ronda attorno al mio palazzo e all’ufficio dove lavoro.
Mi capita a volte di sognarlo, di sognare che rientra a forza nella mia vita e non sono certo sogni piacevoli.
 
Pian piano mi ripresi e ricominciai a vivere la mia vita. Per lunghi periodi non facevo abbuffate e non vomitavo, poi magari entravo in crisi e allora mi sfogavo sul cibo e poi, per paura di ingrassare, rimettevo tutto.
 
Il lavoro procedeva e mi dava soddisfazioni. Mi piace molto ciò che faccio. Grazie a questo lavoro andai persino all’estero più di una volta. Anche questi viaggi di lavoro furono esperienze preziose.
 
Un giorno si bloccò la tubatura di scarico del lavello della cucina e mi si allagò casa. Di nuovo ebbi a che fare con le assicurazioni e ricevetti un piccolo risarcimento. Purtroppo la mia cucina non è più stata la stessa da allora! Però misi da parte e investii una piccola somma per il mio futuro, che mi permise anche di aiutare mio fratello in un momento in cui aveva bisogno di liquidi.
 
Nel frattempo saltò fuori il vizietto del compagno di mia madre. Ci provò con la testimone di nozze di mia cognata e venne tutto a galla.
Mio fratello e mia cognata erano sconvolti ma io non ero sorpresa e gli raccontai di cosa mi era successo tempo prima. Lo raccontai a mia madre ma lei lo difese dicendo che avevo capito male. Luio regolarmente conosce donne in difficoltà a cui si avvinghia ma mia madre lo difende tuttoggi. Anche con una bambina una volta.
 
Poco prima dell’incidente, avevo iniziato un corso di disegno tecnico, ma proprio a causa dell’incidente non potei più seguirlo. Così a settembre, dopo essermi ripresa, cominciai un altro corso serale di disegno tecnico, pagato dalla ditta. Lì conobbi il mio attuale compagno.
Era l’insegnante e ha diversi anni più di me.
Accettai un suo invito al cinema una volta finito il corso e da li iniziò la nostra storia.
Era un po’ di tempo che stavo da sola ed ero contenta che qualcuno mi corteggiasse. Non si può dire proprio che sia piacente ma mi colpirono i suoi occhi azzurri e i suoi modi di fare. Tra l’altro era un ottimo insegnate.
Lui era diverso da tutti quelli che avevo conosciuto fino a quel momento. Nelle nostre uscite non cercava di mettermi le mani addosso e prima di dichiararsi mi fece conoscere sua madre. Direi un uomo d’altri tempi.
Sono quasi tre anni e mezzo che stiamo insieme. Ci siamo inseriti più o meno bene nelle rispettive famiglie. La nostra differenza d’età a volte si fa sentire però devo dire che gli voglio bene, che sono sicura della sua sincerità e che sono certa che lui c’è sempre.
E’ una certezza, un punto fermo nella mia vita vorticosa. Certo se si parla di futuro ho molta paura perché il divorzio nella mia famiglia è quasi una tradizione e perché con la bulimia, non so se potrei crescere con figlio come si deve. Per ora vivo senza fare progetti a lungo termine.
A lui parlai subito della bulimia. Anche lui aveva familiarità con gli psicologi, per cui credo che fu più facile per lui accettare la mia malattia.
Certo non capisce e fa fatica a convivere con tutto ciò che la bulimia comporta. A volte mi chiede se ho vomitato perché vede le tracce in bagno e questo un po’ mi da fastidio, ma almeno si preoccupa per me.
Certe volte anche il mio rapporto con lui mi crea tensione e mi porta a sfogarmi sul cibo e, come dico io, ad abbracciare la tazza del water.
A volte abbraccio più il water che il mio ragazzo. Ho un po’ di problemi con i contatti fisici.
La bulimia torna sempre a ondate nella mia vita. Non sono ancora riuscita a liberarmi del tutto.
Un paio d’anni fa con parte dei soldi avuti per l’incidente e il problemino con le tubazioni decisi di operarmi agli occhi per togliere gli occhiali. Il mio ragazzo mi accompagnò. L’operazione con il laser in realtà non fu molto fastidiosa, ma i giorni successivi furono una tortura. Però ora vedo oltre dieci decimi e mi sento libera.
 
Nel corso degli anni feci nuoto, step, palestra ma sempre per colpa della vertebra rotta dovetti scegliere un’attività più soft. Così mi iscrissi ad un corso di pilates e fu una vera scoperta. L’insegnante era fenomenale! Nel frattempo contattai un nutrizionista e cercai con il suo aiuto di perdere i chili accumulati durante il riposo forzato post incidente.
Soffrivo e soffro tuttora di frequenti mal di schiena, dovuti alla frattura mal saldata alla vertebra.
 
L’anno passato ho avuto un periodo duro, pieno di eventi poco piacevoli. Il compagno di mia madre ha la mani bucate e qualche volta deve vedersela con la legge. Mio fratello e mia cognata hanno deciso di fare casa, si sono rivolti alla ditta per cui lavoro e a metà cantiere mio fratello se n’è andato via di casa, tornando a vivere con mia madre. Mia nonna non più autosufficiente è tornata in casa di riposo e a stento riconosce i familiari. Io mi sentivo tutto addosso. Ero anche in tensione perché mio fratello aveva dei debiti con la mia ditta e mi sentivo responsabile.
Mi sentivo come Atlante, che regge sulle spalle il peso del mondo. In certi momenti vedevo le mie amiche che lavoravano e vivendo con i genitori, potevano comprarsi la macchina nuova e fare viaggi all’estero. Poi guardavo quelle che erano all’università e volevo anche io poter studiare. Insomma ero invidiosa marcia.
Per non farmi mancare niente cercai un mutuo migliore, per pagare meno, e feci da cavia per una dei primi accolli previsti dal Ministro Bersani. Furono giorni difficili che misero la mia pazienza a dura prova. Non so se alla fine ho fatto un buon affare.
Tutto questo ovviamente mi portava a sfogarmi con il cibo e poi nella tazza del water.
 
Così il mio terapeuta mi suggerì il ricovero in una struttura appropriata. Non era la prima volta che me lo proponeva ma io avevo sempre rifiutato con terrore. Non riuscivo a staccarmi dal lavoro, dal mio ragazzo, dai problemi. Come faranno senza di me, pensavo.
 
Finché in primavera dello scorso anno fui io a chiedere il ricovero. Avevo bisogno di staccare la spina, di andarmene e di essere aiutata.
 
Fu così che arrivai in una residenza protetta. All’inizio avevo paura, mi sentivo spaesata, sola, a disagio. Ma con il passare dei giorni questo posto immerso nel verde diventò la mia casa.
 
Non ero ricoverata in reparto ma in day hospital. Vivevamo in 7-8 in due appartamenti in centro città. La mattina partivamo con la corriera e arrivavamo alla residenza, mentre la sera tornavamo giù in taxi.
Le nostre giornate era scandite da rigidi orari per i pasti, attività di gruppo, colloqui individuali e momenti liberi in cui potevamo fare ciò che volevamo. Non voglio raccontare nei dettagli ciò che si faceva, perché ciò che succede dentro la residenza protetta deve rimanere lì dentro, è una cosa nostra. E’ un luogo protetto, un nido.
 
Alla residenza ho conosciuto innanzi tutto uno staff meraviglioso di dottori, dietiste, psicologhe, infermieri, operatori socio sanitari e animatrici. Tutti a modo loro incredibili e fantastici, severi a volte e divertenti altre. Penso spesso a tutti loro.
Ma più di ogni altra cosa mi sono sentita capita, a casa, perché tutti lì dentro, in day hospital o in reparto avevamo problemi simili. Eravamo tutti diversi eppure così uguali. Non ci giudicavamo in base al nostro peso o in base ai nostri comportamenti alimentari.
Ho visto cose terribili e vissuto il dolore, ma ho anche visto crescere amicizie profonde.
Saranno sempre nel mio cuore: la ragazzina dalla voce d’angelo, la ragazza bionda così forte e così fragile, una limpida come l’acqua, l’altra così spirituale, un’altra ancora simpaticissima, per non parlare della mia dolcissima compagna di stanza. Poi l’artista, la giornalista, la ballerina, l’estetista, la studentessa, la moglie, la madre. Ogni volta che una di noi andava via eravamo tristi, perché nella convivenza forzata erano comunque nati legami forti.
Ho conosciuto persone meravigliose, dolcissime, profonde, sensibili, sole, incomprese, delicate.
E’ strano, quando ero lì mi mancava casa e volevo andare via e una volta uscita invece, volevo tornarvi.
 
Ho lasciato in quella residenza un pezzetto del mio cuore. Mentre ero lì ho smesso di vomitare, ho cominciato a mangiare bene, a cucinare qualche semplice piatto, ad esprimere i miei sentimenti. Nei fine settimana tornavo a casa e a volte vomitavo ancora.
 
Sono felice di aver mantenuto i contatti con alcune delle ragazze che ho conosciuto in quelle lunghe settimane.
Di quei giorni ricordo le lacrime, le risate, i piccoli intrecci, gli abbracci e i litigi. Non era facile vivere sempre sotto controllo. Se quelle colline potessero parlare racconterebbero milioni di storie diverse eppure tutte uguali.
 
Spero un giorno di poter tornare là per salutare e ringraziare tutti.
Questo periodo di distacco mi ha aiutato a capire molte cose, a fare ordine nella mia vita e mi ha permesso di fare scelte molto importanti.
 
Già, una volta uscita di lì ho deciso che volevo studiare e sto studiando per prendere il mio secondo diploma. Mi accontento anche di uscire con un voto più basso della prima maturità!
Sono tornata a lavorare e tre sere a settimana e il sabato mattina vado a scuola. Studio quando posso e mi sembra che i miei risultati sono buoni. Sto facendo due anni in uno privatamente, per poi seguire la quinta serale in una scuola pubblica. Tra qualche mese ci sarà l’esame di integrazione. Incrocio le dita!!!!!
 
Mio fratello e mia cognata si stanno separando ufficialmente e con un mutuo da pagare non è facile. Sapendo poi come ci si sente quando i genitori si separano, cerco di passare più tempo con il mio nipotino. Per aiutare mio fratello ho anche disinvestito una parte della somma che avevo messo da parte e glieli ho prestati. Ero sicura che me li avrebbe restituiti e così è stato. Devo dire che quando ha saldato il debito con la mia ditta ho tirato un sospiro di sollievo.
 
Dato che non sono abbastanza impegnata ho iniziato a fare l’amministratrice di condominio, per arrotondare un po’. Per ora ho in gestione solo un piccolo condominio ma me la sto cavando benino. Presto ne gestirò un altro, un pochino più impegnativo.
Insomma sono sempre iper impegnata. Dato che mi avanza del tempo libero ogni tanto, in casa con me vivono due gatti tremendi, che mi tengono compagnia. Il mio ragazzo viene da me il fine settimana.
 
Però mi sento viva. Solo mangiando regolarmente ho la forza e lo stato d’animo per poter portare avanti tutto questo.
 
Non posso dire di essere guarita completamente. A volte vomito ancora, specialmente se sono sotto stress e quando lo faccio poi il mio corpo ne risente e fatico a fare qualsiasi cosa. Inoltre ho i capelli e le unghie rovinate, soffro di stipsi e perdite ematiche. Insomma, il mio corpo ha subito dei danni, che solo smettendo di vomitare guariranno.
Non so se la bulimia mi abbandonerà del tutto un giorno. A volte guardo la mia farfalla tatuata e mi ricordo perché l’ho fatta. E’ uno stimolo.
Eppure con il tempo e grazie alle persone che hanno saputo aiutarmi oggi ho gli strumenti per combattere la malattia, so quali sono le situazioni e i comportamenti a rischio e so che devo trovare altri modi per sfogare lo stress.
 
Ad esempio ho iniziato ad andare a correre. Niente di impegnativo, mezzora tre volte a settimana per stare da sola, fare qualcosa per me, sfogarmi, rilassarmi, godermi il paesaggio e anche della buona musica. Inoltre la corsa mi aiuta a soffrire meno di mal di schiena. Il mio obiettivo è quello di arrivare agli appuntamenti con il mio terapeuta senza il fiatone per le scale appena salite.
 
Si, perché in ogni modo il mio doc rimane il mio punto di riferimento, colui che mi indica quali degli strumenti che ho a disposizione posso usare per stare bene.
Il mio percorso non è finito, però credo di poter affermare che sono a buon punto.
Ecco, io ho finito di raccontare di me. In realtà ho tralasciato molte cose, più o meno consapevolmente.
Quello che voglio dire è che si può guarire. Dobbiamo imparare ad amare noi stessi e a chiedere aiuto, quando ce ne bisogno. Non c’è nulla di male in questo.
Vorrei inoltre concludere sottolineando che la bulimia, l’anoressia e in generali i disturbi alimentari non sono capricci o manie dettate dalla moda del momento.
I disturbi alimentari sono vere e proprie malattie, che coinvolgono mente e corpo. Vanno curate e le persone che ne soffrono vanno aiutate, seguite, capite ma soprattutto amate. Mai giudicate.
 
Un abbraccio sincero.