I DCA
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Temi e approfondimenti sui disturbi alimentari
In questa sezione raccogliamo articoli, riflessioni e materiali divulgativi dedicati ai principali aspetti legati ai Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (DNA): emozioni, relazioni familiari, scuola, adolescenza, alimentazione, cura. Uno spazio pensato per informare, sensibilizzare e stimolare una lettura più consapevole dei contesti in cui nascono e si sviluppano i DCA.
I disturbi del comportamento alimentare (DCA)
Quali sono le cause dei disturbi del comportamento alimentare?
Gian Luigi Luxardi, psicologo
Non esiste un’unica causa dell’anoressia e la bulimia nervosa: esiste piuttosto una concomitanza di fattori di tipo individuale, familiare e socioculturale che possono predisporre a questi disturbi. Benché le varie teorie psicologiche abbiano, di volta in volta, puntato l’attenzione su singoli aspetti, si pensa che focalizzarsi su di un unico, presunto fattore causale sia fuorviante; sembra sia necessario il concorso di più determinanti per generare un disturbo del comportamento alimentare.
Accanto ai fattori predisponenti, che determinano una maggiore vulnerabilità al disturbo, vanno presi in considerazione inoltre i fattori scatenanti, da cui dipendono le circostanze dell’esordio e senza il concorso dei quali probabilmente non si manifesterebbe il disturbo.
Infine vengono esaminati i fattori di mantenimento della malattia che tendono a perpetuarla in assenza di intervento.

Figura 1 – La natura multifattoriale dei disturbi del comportamento alimentare.
Per avere un’idea corretta della dinamica dei disturbi del comportamento alimentare bisogna tenere presente una serie di eventi alcuni dei quali giocano un ruolo nella creazione di una vulnerabilità al disturbo, altri nel passaggio dalla vulnerabilità al disturbo vero e proprio e infine nella costruzione di un circolo vizioso che mantiene la malattia.
FATTORI PREDISPONENTI
Fattori individuali
Ci sono alcune caratteristiche individuali che accomunano le persone che soffrono di anoressia e bulimia; questi elementi concorrono a predisporre un terreno sul quale può innestarsi il disturbo del comportamento alimentare.
Un primo elemento è di tipo cronologico: gli adolescenti sono più vulnerabili al possibile sviluppo di un disturbo alimentare. l’adolescenza è un periodo estremamente delicato di passaggio fra la dipendenza dell’infanzia e l’autonomia della fase adulta. Il disturbo alimentare può nascere dall’incapacità di far fronte a questi cambiamenti e dalla paura della maturità: in un certo senso la malattia è un mezzo per ritornare bambini, sia sul piano fisico che sul piano affettivo e cognitivo.
Tra i fattori di tipo psicologico sembra rilevante l’idealizzazione della magrezza, peraltro rinforzata dai messaggi veicolati quotidianamente dai mass-media. Viene costruita un’immagine di sé strettamente legata a tratti fisici dove la magrezza è percepita come un segno di originalità e di valore (magro è bene; grasso è male). Tutto ruota intorno al corpo come una fonte di autonomia e di controllo. Le donne, e in particolare le ragazze più giovani, sono più vulnerabili degli uomini a questo atteggiamento per motivi legati all’educazione e al contesto socioculturale: sono molto sensibili al giudizio degli altri e il loro valore personale è legato maggiormente alla loro immagine esteriore.
Generalmente sono presenti tratti di personalità caratterizzati da perfezionismo. Si tratta di ragazze ambiziose, con ottimi risultati a scuola e nelle attività che intraprendono, che mostrano un impegno e una tenacia spesso viste come prova di grande maturità e responsabilità. In realtà dietro questo atteggiamento di dedizione e sacrificio si nasconde una bassa autostima ed una profonda insicurezza personale, che esprime il timore di non essere accettati dagli altri per quello che si è , ma solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità. Nelle persone che si ammalano questi tratti vengono spinti all’esasperazione, con l’eliminazione di qualsiasi cosa che non abbia a che fare con lo studio o l’attività su cui si è investito. Nella maggior parte dei casi si giunge a livelli di impegno non sostenibili e al conseguente abbandono della scuola.
Legato al perfezionismo è un particolare tipo di pensiero, definito pensiero “tutto o niente”, caratterizzato dall’assenza di ogni gradualità nel modo di argomentare: le cose sono bianche o nere, i risultati ottenuti sono ridicoli se non si raggiunge il massimo. La ragazza che affronta la dieta per sentirsi più accettata dagli altri penserà che il suo corpo dovrà essere perfetto, altrimenti ogni suo sforzo sarà stato vano.
Nel periodo premorboso di molte persone si ritrovano tratti di ansia e di depressione. Tuttavia è probabile che questo tipo di disturbi siano conseguenti allo stato di malnutrizione (vedi pag. 10).
Ci possono essere, infine, delle determinanti ereditarie, tra le quali, la tendenza al sovrappeso: un’adolescente con le caratteristiche psicologiche di cui abbiamo parlato prima, sentendosi diversa dal modello di aspetto fisico dominante, può polarizzare la sua attenzione sull’esigenza di condurre una dieta ed entrare nel circolo vizioso dell’anoressia nervosa e della bulimia.
Caratteristiche familiari
Il ruolo della famiglia nell’insorgenza di un disturbo alimentare è stato spesso enfatizzato a sproposito. Le varie teorie che si sono occupate di questo aspetto hanno fatto riferimento ad un rapporto disturbato tra madre e figlia o ad una particolare configurazione della dinamica familiare, che presenterebbe una madre dominante iperprotettiva e un padre assente. In realtà è impossibile sapere se un particolare clima familiare sia la causa o piuttosto la conseguenza del disturbo. Sarebbe strano pensare che, di fronte ad una figlia che deperisce giorno per giorno, il genitore non diventi iperprotettivo.
Ciò che appare dalle osservazioni allargate è che esiste una molteplicità di situazioni familiari diverse ed è difficile trovare dei denominatori comuni.
Una considerazione a parte va spesa per quelle famiglie in cui esista una particolare attenzione ai temi dell’aspetto fisico e dell’alimentazione. E’ probabile che un clima familiare in cui questi aspetti vengano enfatizzati possa portare alla costruzione di un’immagine di sé polarizzata sull’aspetto esteriore. Tuttavia, anche in questo caso, non esistono prove che i disturbi del comportamento alimentare si manifestino più frequentemente in contesti di questo tipo.
Caratteristiche socioculturali
L’anoressia nervosa e la bulimia sono diffuse principalmente nei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo in proporzione al livello di assimilazione della cultura occidentale: questo fa pensare che i disturbi del comportamento alimentare abbiano una determinante socioculturale.
L’ideale della magrezza è esaltato da tutti i mezzi di comunicazione: l’aumento dei casi di anoressia e bulimia negli ultimi anni va di pari passo con la diffusione di articoli relativi alle diete e di prodotti per dimagrire. L’immagine attuale di donna di successo non è legata tanto al possesso di particolari capacità quanto a modelli irreali di donne attraenti e, soprattutto, molto magre (si pensi alle copertine delle riviste e le passerelle in cui imperano ragazze ossute e consunte). E’ facile intuire quanto potere questi modelli culturali possano avere su persone particolarmente vulnerabili alle influenze esterne, come per esempio gli adolescenti o soggetti con tendenza al perfezionismo.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che disturbi quali l’anoressia e la bulimia vengono spesso mitizzate: i rotocalchi le presentano come malattie delle ragazze di classe sociale elevata, belle e intelligenti, quando non delle principesse. E’ indubbio che per molte ragazze alla ricerca della propria identità, la capacità di controllo sul proprio corpo dell’anoressica e la possibilità di attrarre l’attenzione degli altri su di sé possono rappresentare un elemento di fascino.
FATTORI SCATENANTI
Il destino di una persona che presenti una vulnerabilità ad un disturbo alimentare può essere diverso a seconda della presenza o meno di altri fattori, cosiddetti scatenanti, che determinano la comparsa del disturbo.
Si pensa che l’intraprendere una dieta dimagrante, dove esista una predisposizione al disturbo, rappresenti un fattore cruciale. Ciò ovviamente non significa che tutte le persone che iniziano una dieta andranno incontro ad un disturbo alimentare. La combinazione di fattori predisponenti e fattori scatenanti sembra essere una formula necessaria per la manifestazione del disturbo.
A volte l’inizio di una dieta si associa a situazioni e problematiche adolescenziali come lo sviluppo puberale, il distacco dalla famiglia, l’occasione di un viaggio senza i genitori e l’inizio, o la conclusione, di una relazione affettiva.
Altre volte si tratta di situazioni legate a momenti difficili e negativi della vita, come la morte di un familiare, di un amico, le malattie.
Molto peso, in questa fascia d’età, hanno i commenti delle persone, soprattutto dei coetanei in riferimento al proprio aspetto fisico.
FATTORI DI MANTENIMENTO E VANTAGGI DELLA MALATTIA
Consideriamo fattori di mantenimento della malattia tutti quegli eventi che contribuiscono a rinforzare la condizione patologica una volta innestata. E’ molto importante tenere in debita considerazione questi aspetti poiché spesso l’unico intervento possibile è rappresentato dalla riduzione di questi fattori: nell’impossibilità di reperire una causa precisa da rimuovere, l’intervento più efficace è rappresentato dalla modifica di quegli elementi che tengono in vita il disturbo.
Inizialmente sono molto importanti gli aspetti legati al pensiero. Le idee sull’importanza del peso e delle forme corporee spingono la persona a formulare un unico pensiero “E’ assolutamente fondamentale che io sia magra!”, e a considerare valida qualsiasi azione tesa al raggiungimento di questo obiettivo. L’intervento, in questo caso, è rappresentato dalla messa in discussione di questi presupposti. Tuttavia, spesso idee di questo genere vengono rinforzate dall’ambiente esterno. Non è raro trovare qualcuno che si complimenta con una ragazza normopeso che si mette a dieta.
Con il tempo, tuttavia, il rinforzo esterno tende a diminuire e il fattore di mantenimento più importante diventa la sintomatologia da digiuno, di cui abbiamo già parlato. L’attenzione al corpo e al cibo si accentua e si aggravano le distorsioni dell’immagine corporea. Le difficoltà gastro-intestinali conseguenti allo stato di malnutrizione rendono difficile mangiare e ad ogni assunzione alimentare si accompagnano dolori, spasmi e gonfiori fastidiosi. Inoltre l’insorgenza della sintomatologia psichiatrica (depressione, ansia, irritabilità) e la tendenza a chiudersi in sé pongono la ragazza in una condizione in cui ogni reazione è difficile ed anche l’accettazione di un aiuto esterno risulta problematica. Dal punto di vista del trattamento, l’intervento più efficace per ridurre i sintomi da digiuno è rappresentato dalla riabilitazione nutrizionale.
Per ciò che riguarda la bulimia, il fattore principale di mantenimento è costituito dal vomito autoindotto. Sia dal punto di vista psicologico che da quello fisiologico, è accertato che questa pratica tende a facilitare successive abbuffate e ad esasperarle ulteriormente. Il pensiero dominante diventa “Posso anche lasciarmi andare, tanto so che vomiterò”; talvolta l’abbuffata è spinta oltre i suoi limiti naturali perché solo se ci si sente pieni da scoppiare si riesce a vomitare. L’intervento più diretto, in questo caso, è rappresentato da una regolarizzazione dell’alimentazione che miri a spezzare il circolo vizioso della bulimia.
Inoltre, per quanto paradossale possa sembrare, le conseguenze di questi disturbi possono essere viste come vantaggi. Nell’anoressia, ad esempio il perdere peso dà un senso di gratificazione, di autocontrollo, di capacità di gestire la situazione, nonché la possibilità di attirare l’attenzione su di sé, di essere presenti agli occhi degli altri attraverso la scomparsa del proprio corpo.
Nel caso della bulimia nervosa, l’ingerire grandi quantità di cibo è un modo per sedare i momenti di ansia e di tensione, e i comportamenti eliminativi conseguenti, come il vomito o l’uso di lassativi, permettono di agire un certo controllo sulla situazione; eliminando il cibo si elimina ogni remora per averne assunto troppo.
Spesso la consapevolezza dei cosiddetti vantaggi è minima. La persona che chiede il trattamento è convinta in buona fede di voler cambiare, ma via via che il cambiamento si prospetta può accorgersi che la sua determinazione non è più così forte. Le conseguenze sono rappresentate da sensi di colpa e di svalorizzazione personale che possono vanificare la spinta al superamento del problema. In queste situazioni si rivela particolarmente utile una revisione della motivazione al trattamento, che aiuti la persona ad accrescere la consapevolezza delle proprie resistenze interne e a considerare il superamento di queste come una parte del lavoro da svolgere.
Infine, un fattore di mantenimento importante può essere rappresentato dalla dinamica familiare. Abbiamo detto precedentemente che non esiste una famiglia tipo legata ai disturbi del comportamento alimentare, tuttavia l’insorgere del problema può indurre comportamenti che, se sono perfettamente comprensibili, tendono però a perpetuare il disturbo. L’emergere di un atteggiamento iperprotettivo, caratterizzato da un’attenzione accentuata e diffusa sui comportamenti della figlia, ha, in ultima analisi, l’effetto di ridurne l’autonomia. Si viene a creare una situazione di regressione dell’intero nucleo ad un’età precedente della vita familiare quando, per esempio, i genitori dovevano occuparsi dell’alimentazione della figlia. Se consideriamo che il motore dei disturbi del comportamento alimentare è spesso rappresentato da una paura di crescere e di autonomizzarsi, ci rendiamo conto di come questa situazione può essere maggiormente coerente con il mantenimento del problema piuttosto che con il suo superamento. Un intervento di supporto ai familiari può rivelarsi estremamente utile, soprattutto se si muove nella direzione di accrescere le conoscenze del problema in modo da permettere ai genitori di svolgere più agevolmente le loro competenze. Una forma che nella nostra esperienza clinica si è rivelata particolarmente interessante è quella del gruppo di auto-aiuto, in cui i genitori scambiano le loro esperienze fornendosi un sostegno reciproco.
L’anoressia nervosa
- L’anoressia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da una restrizione dell’alimentazione dovuta ad un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee, che si esprime in una pervasiva paura di ingrassare e in una ricerca della magrezza.
L’anoressia nervosa è presente in uguale misura in tutte le classi sociali e coinvolge prevalentemente il sesso femminile: solo un caso su 10, infatti, riguarda i soggetti maschi. L’età di insorgenza del disturbo è compresa fra i 12 e i 25 anni, con una frequenza maggiore fra i 14 e i 18 anni; più raramente si manifesta dopo i 30 anni.
Il principale sintomo dell’anoressia nervosa è il rifiuto di mantenere il peso corporeo entro i livelli di normalità: la presenza di un marcato dimagrimento può essere un segnale indicatore del disturbo. La perdita di peso è accompagnata nei soggetti di sesso femminile dalla scomparsa delle mestruazioni (amenorrea).
Nella fase iniziale della malattia l’attenzione è concentrata sul proprio peso e compare un forte desiderio di essere magri. Con l’andare del tempo questa preoccupazione cede il posto ad un‘illogica e angosciante paura di ingrassare, che porta a rimuginare continuamente sull’idea di cibo e ad adottare comportamenti estremi finalizzati alla perdita di peso; questa paura permane anche quando il peso corporeo è così basso da costituire un rischio per la vita della persona.
Il comportamento tipico nell’anoressia nervosa è quello di intraprendere una dieta, allo scopo di eliminare alcuni cibi ritenuti superflui o troppo calorici; a poco a poco il controllo sul cibo diventa sempre più rigido al punto di arrivare a eliminare gran parte degli alimenti che prima venivano assunti. L’alimentazione spesso viene limitata al consumo di frutta e verdura; carboidrati e proteine vengono assunti in quantità molto limitate, mentre i cibi grassi sono quasi completamente assenti; si tende a preferire alimenti liquidi, spesso consumati molto caldi, per aumentare la sensazione di sazietà.
La fase iniziale del disturbo è caratterizzata dalla negazione della malattia. Le ragazze anoressiche non ritengono di avere problemi e anzi considerano il proprio comportamento logico e coerente; sostengono di stare bene e di non vedere nulla di cui preoccuparsi. Spesso la negazione è talmente estrema da creare un disturbo dell’immagine corporea per cui, nonostante la perdita di peso consistente, alcune ragazze continuano a vedersi normali o addirittura grasse.
La maggior parte delle ragazze anoressiche sperimenta una fame intensa contro cui investe una porzione sempre maggiore delle proprie energie per riuscire a mantenere il controllo. In questo senso il termine “anoressia” (dal greco “an” – prefisso negativo – e “orekteo” – ho appetito) può apparire fuorviante. In realtà la restrizione alimentare provoca nell’organismo meccanismi biologici di protezione, consistenti in un aumento della fame, dell’appetito e delle preoccupazioni riguardo all’alimentazione. Si genera una compulsione al cibo, che può sfociare in vere e proprie abbuffate (crisi bulimiche). In questi casi la quantità di cibo che viene ingerita può essere oggettivamente esagerata; molto spesso, tuttavia, viene solo percepita come tale. Può accadere per esempio che l’abbuffata si riveli, ad un’indagine più precisa, un pasto di media entità o addirittura un piccolo spuntino. Ciò che conta è che venga considerato in sovrappiù rispetto a quanto previsto e che generi la sensazione di essersi lasciata andare. Tutto ciò ovviamente va ad amplificare la paura di aumentare di peso.
Al mancato controllo sull’assunzione del cibo fanno seguito condotte atte a limitare l’introito calorico. Alcune ragazze incrementano la restrizione alimentare oppure si danno ad una attività fisica esasperata, cogliendo qualsiasi pretesto per bruciare calorie; altre adottano metodi di compenso presenti anche nella bulimia, quali il ricorso al vomito o l’abuso di lassativi e diuretici. Queste condotte fanno riferimento a quadri psicologici differenti che portano a distinguere forme diverse di anoressia: nel primo caso si parla di anoressia di tipo restrittivo e si riscontra una tendenza più marcata a negare la malattia e caratteristiche di tipo ossessivo; la seconda forma viene denominata anoressia di tipo bulimico e presenta una manifestazione più evidente della sofferenza, con la presenza di sintomi depressivi, irritabilità e in alcuni casi con comportamenti impulsivi (atti autolesivi, fughe, piccoli furti, ecc.).
Un elemento cruciale nello sviluppo dell’anoressia nervosa è rappresentato dalla comparsa dei sintomi da digiuno (vedi tabella n.1), ossia di conseguenze sul piano psicologico e fisico della restrizione alimentare. Le conoscenze a questo proposito derivano da un filone di studi che data ormai quarant’anni, iniziato presso l’Università del Minnesota. Le persone che si sottopongono ad una alimentazione ridotta, dopo una prima fase caratterizzata da euforia ed iperattività, sviluppano una complessa sintomatologia che coinvolge aspetti organici e psichici. Sul piano psicologico si riscontra un’attenzione polarizzata sul cibo, che porta il soggetto a imperniare tutta la sua quotidianità sull’alimentazione, talvolta con comportamenti bizzarri. Si assiste a modificazioni importanti sul piano emotivo con l’emergere di stati depressivi, ansiosi e di irritabilità; talvolta si possono riscontrare manifestazioni psichiatriche anche di maggiore gravità.
Spesso si evidenzia una tendenza all’isolamento sociale che viene poi amplificata dalle oggettive difficoltà che la ragazza anoressica incontra nel frequentare altre persone. Gli amici, dopo un primo momento in cui l’hanno incoraggiata per la sua linea, sono perplessi per l’eccessivo dimagrimento e non condividono le sue preoccupazioni per il cibo. Inoltre, lo stare insieme spesso prevede momenti conviviali quali andare a mangiare la pizza o il gelato; in queste occasioni chi soffre di anoressia sperimenta solo esclusione ed imbarazzo.
Sul piano cognitivo si riscontra, dopo la fase iniziale, una diminuzione della capacità di concentrazione, che spesso ha a che fare con la necessità di aumentare l’impegno nello studio fino a ritmi estenuanti per mantenere il profitto scolastico. Inoltre si assiste ad un arretramento della forma del pensiero che diviene simile a quello infantile, legato ai dati concreti della quotidianità e incapace di elaborare ipotesi sul futuro o su situazioni diverse da quella presente.Sintomi da digiunoAtteggiamenti nei confronti del cibo
¨ Preoccupazione per il cibo
¨ Collezione di ricette e libri di cucina
¨ Inusuali abitudini alimentari
¨ Incremento del consumo di caffè, tè, spezie
¨ Occasionale ingestione esagerata di ciboModificazioni emotive e sociali
¨ Depressione
¨ Ansia
¨ Irritabilità e rabbia
¨ Labilità
¨ Episodi psicotici
¨ Cambiamenti di personalità evidenziati dai test psicologici
¨ Isolamento socialeModificazioni cognitive
¨ Diminuita capacità di concentrazione
¨ Diminuita capacità di pensiero astratto
¨ ApatiaModificazioni fisiche
¨ Disturbi del sonno
¨ Debolezza
¨ Disturbi gastrointestinali
¨ Ipersensibilità al rumore e alla luce
¨ Edema
¨ Ipotermia
¨ Parestesie
¨ Diminuzione del metabolismo basale
¨ Diminuzione dell’interesse sessualeA. Keys et al., The Biology of Human Starvation. Minneapolis: University of Minnesota Press,1950
Tabella n.1 – Sintomi da digiuno.
E’ importante sapere che i sintomi descritti sono legati in modo contingente alla condizione di malnutrizione e sono quindi transitori. L’intero quadro regredisce nel momento in cui il peso normale viene ripristinato.
LE COMPLICAZIONI DI TIPO MEDICO.
Le persone che soffrono di anoressia nervosa possono arrivare ad un livello di logoramento fisico che si riflette in complicazioni a carico di tutti gli organi interni e che può essere anche mortale.
Le complicanze cardio-vascolari quali il rallentamento del ritmo cardiaco e l’abbassamento della pressione arteriosa sono presenti nella maggioranza dei casi. Meno frequenti ma più pericolose sono le alterazioni dell’equilibrio elettrolitico, specie per quanto riguarda il potassio. Questa eventualità si presenta più frequentemente in concomitanza con la presenza di vomito autoindotto frequente o con l’abuso di lassativi e diuretici. In queste situazioni è opportuno effettuare controlli periodici degli elettroliti nel sangue (potassio, magnesio, sodio, cloro).
Le complicanze gastro-intestinali consistono in un rallentamento della funzione digestiva con presenza di gonfiori e stipsi. Generalmente questi disturbi regrediscono quando si torni ad una alimentazione e ad un peso normali. E’ sconsigliato l’uso di lassativi poiché nel tempo incide negativamente sulla funzionalità intestinale e irrita le mucose.
Le complicanze a livello osseo sono caratterizzate dall’osteoporosi dovuta alla diminuzione degli estrogeni a seguito della scomparsa del ciclo mestruale. Il rischio maggiore è legato alla comparsa del disturbo in giovane età, prima del menarca, quando la struttura ossea non ancora completamente formata. In questo caso può verificarsi un blocco nella crescita ossea. Abitualmente il problema si aggrava a lungo termine, con una rarefazione ossea sempre più marcata ed un aumento del rischio di fratture. Non è ancora chiaro se gli estrogeni, somministrati con la pillola, abbiano una valenza preventiva. L’orientamento prevalente è quello di intervenire sulla ripresa del peso corporeo nelle persone con una bassa durata di malattia; la somministrazione di estrogeni è invece da valutare in caso di cronicità.
Per ciò che riguarda le complicanze a livello neurologico, alcuni studi effettuati con l’uso della tomografia assiale computerizzata (TAC) e con la risonanza magnetica nucleare (RMN) hanno messo in luce una pseudoatrofia cerebrale e l’allargamento dei ventricoli. Non è chiaro se si tratti di danni reversibili con il recupero del peso. In alcuni casi si osservano delle alterazioni dell’elettroencefalogramma.
A livello delle complicanze dermatologiche si nota spesso il colorito giallastro delle estremità, un aumento della peluria, pelle secca e disidratata, perdita dei capelli. Nelle persone che vomitano si possono produrre dei calli sul dorso delle mani. I sintomi descritti non richiedono particolari interventi.
LA MORSA
La morsa è un oggetto che ti stringe, sempre di più, sino a farti soffocare … come l’anoressia.
L’anoressia, in sé, non è il vero problema: è un sintomo mediante il quale molte persone giovani, soprattutto ragazze, intendono manifestare un malessere interno, un disagio che nessuno comprende. Si calcolano le calorie di ogni minima sostanza ingerita, facendo di tutto perché il corpo possa consumarle, o rigettarle. Ecco, allora, l’attività fisica svolta in maniera sfrenata, l’abuso di lassativi, di diuretici, il vomito, l’ingoiare prodotti dimagranti, nella speranza che, pesandosi, l’ago della bilancia non sia allo stesso punto, ma al contrario che regredisca ogni volta che si sale su quell’arnese, divenuto un compagno inseparabile.
C.D.Z.
Binge-Eating Disorder
Il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge-Eating Disorder)
Il disturbo da alimentazione incontrollata è caratterizzato dalla presenza di “abbuffate” frequenti, non accompagnate da strategie per compensare il cibo in eccesso. Le persone che manifestano questo disturbo assumono, in un tempo limitato, quantità di cibo esagerate con la sensazione di perdere il controllo dell’atto del mangiare. Queste situazioni si ripetono anche più volte la settimana in momenti della giornata in cui non si sente fisicamente la fame. In questo senso il disturbo da alimentazione incontrollata si differenzia dalla bulimia: non si riscontra infatti il circolo vizioso tra i tentativi di restrizione, l’abbuffata e i comportamenti eliminativi. L’eccesso alimentare non sembra dipendere da una pressione biologica proveniente dall’organismo.
Spesso tale disturbo è associato a tentativi di dieta, tuttavia non è esatto attribuire la causa delle frequenti abbuffate alla dieta restrittiva. Il problema principale sembra consistere in una difficoltà a controllare l’impulso ad alimentarsi.
A differenza dei casi di bulimia nervosa, inoltre, le persone non ricorrono a meccanismi eliminativi, quali il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi, attività fisiche esasperate o altro, allo scopo di eliminare il cibo assunto o bruciare le calorie in eccesso. Questo spiega come mai il disturbo da alimentazione incontrollata sia correlato all’obesità. Si ritiene, infatti, che sia presente nel 30% circa dei casi obesità.
I pasti vengono consumati in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite, con conseguente senso di colpa per aver mangiato troppo. Il disagio, derivante da un simile comportamento alimentare comporta sentimenti spiacevoli durante e dopo gli episodi di abbuffata e preoccupazioni circa le conseguenze a lungo termine sulla forma e sul peso del corpo.
Per alcune persone il comportamento alimentare incontrollato viene scatenato da alterazioni dell’umore, come depressione e ansia o sentimenti di tensione. In altre prevale la ricerca dalla sensazione di disinibizione caratteristica del mangiare senza controllo
Chi soffre di tale disturbo presenta gradi variabili di obesità. Nella storia di queste persone si possono ritrovare tentativi ripetuti di stare a dieta, accompagnati dalla disperazione per la difficoltà nel controllare l’assunzione di cibo. Qualcuno continua a fare tentativi di ridurre l’introduzione di calorie, mentre altri rinunciano ai tentativi di stare a dieta a causa dei ripetuti fallimenti.
Le complicanze fisiche
Generalmente le abbuffate in questo tipo di disturbo sono meno esasperate di quelle che si ritrovano nella bulimia, di conseguenza anche i problemi medici correlati sono meno importanti. I problemi più rilevanti sono dovuti alla condizione di obesità che ne deriva.
La Bulimia nervosa
La bulimia nervosa è un disturbo molto simile, per certi aspetti, all’anoressia: il nucleo centrale di entrambe le patologie è rappresentato da una paura morbosa e pervasiva del peso elevato, accanto ad una influenza eccessiva del peso e della forma del corpo nella valutazione della stima di sé.
La bulimia nervosa compare nell’1-2% della popolazione generale. Come l’anoressia nervosa, è diffusa soprattutto nei paesi industrializzati e riguarda nella maggioranza dei casi il sesso femminile.
L’età di insorgenza del disturbo è generalmente il periodo adolescenziale e la prima età adulta.
Il comportamento più caratteristico della bulimia nervosa è l’abbuffata, cioè un episodio in cui vengono assunte molto rapidamente grandi quantità di cibo, scegliendo gli alimenti maggiormente disponibili o che non richiedono una lunga preparazione, spesso mescolando sapori anche molto diversi fra loro. Durante l’abbuffata si ha la sensazione di perdere l’autocontrollo nei confronti del cibo con un forte senso di disagio. Questi episodi avvengono solitamente in segreto, lontano dagli occhi di familiari o di chiunque possa costituire un eventuale freno o inibizione.
Le circostanze in cui si origina l’episodio dell’abbuffata possono essere diverse: talvolta viene scatenato dall’assunzione di un cibo che la persona considera “proibito” per l’elevato contenuto energetico o di grassi; altre volte, invece, l’innesco può essere dovuto ad uno stato di tensione precedente dovuto ad un continuo rimuginare sul proprio peso e le proprie misure, dalla sensazione di essere grassi, dal sentirsi arrabbiati, depressi o isolati; in altri casi l’abbuffata viene programmata, scegliendo con cura il momento adatto e predisponendo gli alimenti necessari.
Durante un’abbuffata si alternano emozioni molto diverse: inizialmente c’è un senso di sollievo per aver interrotto una costrizione dettata dalla dieta; a questo sentimento fanno seguito sensi di colpa e di disgusto per aver ceduto all’impulso, unitamente ad una forte ansia per aver potenzialmente provocato un aumento di peso.
La frequenza delle abbuffate richiesta per fare una diagnosi di bulimia nervosa è di due episodi alla settimana, tuttavia l’esperienza clinica mostra che talvolta anche frequenze ridotte sono legate a stati di malessere piuttosto gravi. In molti casi le crisi bulimiche si presentano più volte al giorno, fino a sostituire completamente l’alimentazione normale.
Agli episodi di perdita del controllo sul cibo fanno seguito contromisure di compenso all’eccessiva ingestione di alimenti: ha cosi’ inizio un circolo vizioso della bulimia nervosa che alterna abbuffate e comportamenti eliminativi in un crescendo di senso di colpa, vergogna e insoddisfazione personale.
Il metodo di compensazione più semplice consiste nella restrizione alimentare, più o meno drastica, molto spesso accompagnata da esercizio fisico a volte esasperato. La dieta, però, aumenta la vulnerabilità delle abbuffate: come succede nell’anoressia, il pensiero si focalizza sul cibo e l’atto alimentare diventa compulsivo con la perdita dell’autocontrollo.
Un’altra modalità compensativa è rappresentata dai cosiddetti comportamenti eliminativi, in primo luogo dal vomito autoindotto. La sensazione di pesantezza che segue l’abbuffata e la paura intensa di aumentare di peso spingono la persona a indursi il vomito per espellere il cibo ingerito. Questa condotta può dare l’impressione di aver rimediato alla perdita di controllo, quantomeno sul fronte della riduzione delle calorie assunte. Gli effetti reali, tuttavia, sono diversi da quelli attesi: anche se la maggior parte delle calorie viene espulsa, ne viene assorbita, comunque, una quantità considerevole. Inoltre il vomito autoindotto contribuisce, sul piano psicologico, ad esacerbare la condotta. La convinzione, infatti, di aver trovato il modo per potersi liberare dell’appesantimento e dalle altre conseguenze della nutrizione eccessiva, elimina ogni remora nell’incorrere in successive abbuffate: in questo modo il circolo della bulimia si perpetua. In molti casi si osserva la necessità di esasperare l’abbuffata oltre a quanto si sarebbe spinti a fare, fino a raggiungere uno stadio di grande malessere fisico, allo scopo di facilitare l’espulsione del cibo.
Lassativi e diuretici costituiscono un’altra di modalità compensatoria. A questo proposito, oltre a ricordare i danni che anche queste condotte possono arrecare all’organismo, è necessario puntualizzare che il metodo ha una scarsa efficacia. I lassativi, infatti, agiscono sulla parte terminale dell’intestino e non intervengono sull’assimilazione dei nutrienti. L’effetto di “sgonfiamento”, tanto apprezzato, è dovuto ad una perdita di liquidi che viene rapidamente recuperata. Un discorso analogo può essere fatto per i diuretici.
L’adozione dell’uno o dell’altro metodo di compenso porta a differenziare due sottotipi di bulimia nervosa, analogamente a quanto fatto per l’anoressia. Nella forma in cui il controllo del peso viene mantenuto per mezzo di comportamenti eliminativi (vomito autoindotto, lassativi e diuretici) si parla di bulimia di tipo purgativo: i soggetti che si collocano in questa area presentano più spesso depressione, ansia e comportamenti impulsivi (difficoltà a controllare le proprie emozioni, atti autolesivi, talvolta furti). La somiglianza con le ragazze che soffrono di anoressia di tipo bulimico è forte, con la differenza che in questo caso il peso non è al di sotto della norma. Si parla di bulimia non purgativa, invece, quando i mezzi di compenso utilizzati sono il digiuno o l’attività fisica: le persone che fanno parte di questo gruppo presentano una prevalenza di caratteri di tipo ossessivo.
A differenza di ciò che accade nell’Anoressia Nervosa, il peso delle persone bulimiche non è al di sotto dei livelli considerati ideali per mantenere una buona salute: ciò è dovuto principalmente alla frequenza di episodi di abbuffate che caratterizzano questo disturbo.
Le complicazioni di tipo medico
Chi soffre di bulimia nervosa va incontro ad una serie di problemi di tipo organico legati principalmente al comportamento dell’abbuffata e all’utilizzo dei metodi purgativi.
La pratica del vomito autoindotto genera complicanze di tipo odontoiatrico: il vomito procura un’erosione dello smalto soprattutto nella parete interna dei denti frontali. Le otturazioni non vengono intaccate e si presentano solitamente sporgenti dalla superficie dello smalto. E’ opinione comune che l’utilizzo dello spazzolino dopo aver vomitato contribuisca a peggiorare l’effetto dell’erosione. Si consiglia di utilizzare, in alternativa, un colluttorio che neutralizzi l’acido del vomito e ristabilisca l’ambiente basico del cavo orale. Solitamente si riscontrano anche infiammazioni alle gengive.
Sul fronte delle complicanze a carico del cavo oro-faringeo si riscontra un rigonfiamento delle ghiandole salivari, in particolare le parotidi. Questo fatto non genera particolari problemi di tipo medico, se non un aumento della secrezione salivare, tuttavia il gonfiore da al viso un aspetto “paffuto” che viene confuso con un ingrassamento, andando ad aumentare la paura per l’aumento di peso. Il gonfiore delle parotidi è reversibile e scompare con la sospensione del vomito autoindotto. Si riscontrano anche danni alla gola: il conato richiede uno sforzo che può essere lungo e prolungato. Possono prodursi piccole ferite con possibili infezioni. Abbastanza frequentemente le persone che si procurano il vomito lamentano dolori alla gola e raucedine.
Più rare ma particolarmente pericolose sono le complicanze a carico del tratto gastro-esofageo. L’effetto più frequente e meno preoccupante è quello di una fastidiosa pienezza, talvolta dolorosa, che segue l’abbuffata. E’ molto raro che la parete dello stomaco si dilati fino a lacerarsi, tuttavia l’eventualità è da considerarsi un’emergenza medica seria. Qualora si sentissero dolori allo stomaco è meglio smettere di mangiare; se i dolori permangono e sono molto forti è importante rivolgersi prontamente ad un medico. Analogamente è abbastanza raro che un accesso di vomito produca una rottura dell’esofago, un’altra emergenza seria; questa eventualità può essere segnalata dalla presenza di sangue nel vomito. Anche in questo caso è importante chiedere immediatamente un aiuto medico. Più frequentemente si verificano infiammazioni all’esofago.
Il vomito frequente può facilmente condurre a complicanze dell’equilibrio elettrolitico. Il bilanciamento dei liquidi corporei con gli elettroliti (sodio, magnesio, potassio, ecc.) può essere alterato con conseguenze particolarmente serie. L’effetto più grave è la carenza di potassio (ipopotassiemia) che può dar luogo ad alterazioni, anche gravi, del battito cardiaco. Gli squilibri elettrolitici possono essere riconosciuti da alcuni sintomi (vertigini, sete, ritenzione idrica con gonfiori agli arti, spasmi nervosi, apatia) ma talvolta possono essere completamente asintomatici. E’ importante tenere questi aspetti sotto controllo con un monitoraggio da parte del medico e analisi periodiche del sangue.
IL VUOTO
La bulimica non ha stima di sé; non si vuole bene; ritiene sbagliata ogni sua azione, persino ciò che pensa. In lei c’è il vuoto che non riesce a colmare, perché ha bisogno di amore che costantemente si vede negato.
S’innesca, allora, un meccanismo di auto-difesa che permette, in qualche modo, di colmare quell’enorme lacuna: la ragazza inizia a mangiare rimpinzandosi fino a non reggere più. C’è una specie di scossa che la prende dai capelli fino alle dita dei piedi e la spinge a divorare ogni cosa commestibile che trova. Con noncuranza passa dal dolce al salato ingerendo qualsiasi alimento, anche ciò che non le piace: ha perso il controllo e l’importante per lei è solo riempirsi fino all’estremo.
Quando finisce l’abbuffata immediatamente scatta il senso di colpa: ha fatto qualcosa di abominevole e assolutamente deve rimediare! L’atteggiamento più frequente è procurarsi il vomito con le dita o con in cucchiaio; ma non sempre basta passare ore chiusa dentro il bagno per rimediare al male fatto! Bisogna eliminare ogni residuo di cibo: allora ella assume una quantità enorme di lassativi (anche un centinaio di confetti alla volta!) per depurare del tutto il proprio corpo.
La sensazione che la bulimica ha di sé è la nullità: lei è niente per se stessa e per gli altri … gli altri che non comprendono quanto stia male!
C.D.Z.
Il disagio giovanile
Marina Moro, psicologa
L’adolescente e il cambiamento
La parola adolescenza deriva dal latino adulescere che significa “crescere”; altre fasi di sviluppo della vita della persona prevedono una “crescita”, ma nessuna, come l’adolescenza, prevede così ampi cambiamenti.
L’adolescenza è una condizione di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Il mondo dell’infanzia rappresenta uno spazio sicuro e protetto dove le figure adulte di riferimento appartengono alla sfera familiare. L’immagine che il bambino costruisce di sé e del mondo esterno passa attraverso il riconoscimento e il rispecchiamento dei genitori, che garantiscono protezione e rassicurazione.
È proprio nell’infanzia che l’individuo “getta le basi” per la costruzione della sua personalità. Nella realizzazione della persona questo periodo della vita riveste una grande importanza perché, come i primi piani di un edificio, permette di sostenere e determinare i livelli successivi di sviluppo (i piani superiori).
Durante l’adolescenza il ragazzo si distanzia dalla sicurezza e prevedibilità del mondo infantile, caratterizzato in larga parte dall’impronta dei genitori, per avventurarsi nell’esplorazione del territorio adulto utilizzando percorsi sempre più personali.
Ritornando alla metafora dell’edificio l’adolescenza potrebbe corrispondere al “piano di mezzo”, alla fase intermedia dello sviluppo, dove la necessità di costruire un’identità stabile, un edificio solido, passa attraverso la sperimentazione di nuovi stili di relazione (al pari degli stili architettonici) alla ricerca di un proprio personale modo di stare al mondo. L’età adulta, durante la quale rimane comunque possibile attuare cambiamenti e riaggiustamenti, rappresenterebbe quasi una conseguenza di ciò che la persona ha costruito nelle fasi antecedenti della sua vita: di norma l’adulto ha già strutturato nel tempo una propria stabilità. L’instabilità dell’adolescente è invece dovuta al fatto che egli non è più il bambino di prima e non è ancora l’adulto che sarà.
L’adolescenza è perciò caratterizzata, da un lato, dalla nostalgia e dal senso di perdita per un passato fonte di sicurezza, rappresentato dall’universo familiare, e dall’altro, dal desiderio di crescere e sperimentare, che porta con sé l’incertezza della nascita nell’universo sociale.
Mentre cerca di conquistare il suo posto nel mondo degli adulti l’adolescente si ritrova a dover gestire diversi livelli di difficoltà dovute ai grandi rimaneggiamenti e trasformazioni sia sul piano psicologico che su quello fisico. Non è facile stabilire in modo preciso l’arco di anni attraversato dall’adolescenza. Se le modificazioni di tipo fisiologico e ormonale, la pubertà, fissano il punto di partenza dell’adolescenza, non esistono parametri biologici che ne indicano la fine.
In tutte le società la durata dell’adolescenza è strettamente legata all’ambiente familiare e sociale. Nelle società primitive la presenza di riti di passaggio permette di “regolamentare” i momenti esistenziali critici. L’adolescente attraverso un rituale sociale ha la possibilità di uscire dalla condizione di isolamento, solitudine e vergogna perché viene inserito all’interno di una percorso riconosciuto socialmente ed uguale per tutti, dove al dubbio si sostituisce la certezza. Nelle società occidentali la durata dell’adolescenza è più variabile perché il singolo è lasciato a se stesso e il riconoscimento sociale è influenzato soprattutto dal percorso educativo/scolastico. L’adolescente non è un adulto finché “deve ancora imparare”. Ci troviamo così di fronte ad adolescenze protratte o interminabili dove il prolungamento degli studi, le difficoltà a collocarsi nel mondo del lavoro e la mancata indipendenza economica intensificano la dipendenza dalla famiglia e congelano i movimenti di autonomizzazione.
I cambiamenti di tipo fisiologico, le modificazioni nel modo di pensare, nei sentimenti e nel rapporto con gli altri si influenzano a vicenda, ma necessitano per attuarsi e stabilizzarsi di essere, in una certa misura, riconosciuti. L’idea di sé dell’adolescente si arricchisce dell’immagine che vede riflessa negli altri (rispecchiamento) e il bisogno di convalida, un tempo soddisfatto dai genitori, si rivolge ora al sociale.
I cambiamenti del corpo
L’adolescenza è l’età in cui avvengono i maggiori cambiamenti corporei nel minor lasso di tempo e, beffa della sorte, il momento in cui la fisionomia del ragazzo si caratterizza più precisamente nella somiglianza ai genitori, proprio ora che è maggiore il bisogno di staccarsi da loro per acquisire una propria identità.
Poiché la crescita e il cambiamento delle proporzioni del corpo di per sé non sono fenomeni controllabili, essi possono, per molti adolescenti, diventare fonte di insicurezza, per di più è possibile che i tempi di maturazione del corpo e della mente, non essendo sempre sincronizzati, accentuino nei ragazzi il vissuto di disarmonia. La difficoltà a tener dietro ai cambiamenti del corpo può far nascere la paura di non piacersi, ne è una prova il tempo passato davanti allo specchio. Il corpo diventa il luogo di un processo di evoluzione non solo in termini di accrescimento, ma soprattutto per il manifestarsi delle caratteristiche sessuali.
Alle modificazioni esterne si accompagnano delle modificazioni interne in termini di sensazioni, sentimenti e stati d’animo; la maturazione sessuale, per esempio, fa nascere la paura di essere notati e di non piacere agli altri, cioè il sentimento di vergogna, e la sensazione di inutilità/frustrazione per il fatto di avere una sessualità della quale gli adulti vietano l’espressione.
Il corpo proprio perché esposto e notato, nell’adolescenza più che in altre fasi della vita, si trova così al centro di scambi relazionali e affettivi. Il corpo assume un significato sociale comunicativo e attraverso il corpo il ragazzo esprime la sua appartenenza o differenziazione nei confronti della società. Il bisogno di aderire alle mode può rispondere alla necessità di segnalare l’appartenenza o la rassomiglianza ad un certo gruppo, allo stesso modo, i repentini cambiamenti di look spesso evidenziano il desiderio di differenziarsi alla ricerca della propria unicità/originalità o il bisogno di travestirsi per mascherare aspetti di inadeguatezza.
I cambiamenti del modo di pensare
Anche la mente, intesa come capacità di pensare, si sviluppa procedendo per fasi. Il livello superiore di sviluppo dell’intelligenza viene raggiunto nella fase adolescenziale pertanto i ragazzi verso gli 11-15 anni sono in possesso degli stessi strumenti intellettivi propri degli adulti.
Il tipo di pensiero che caratterizza l’infanzia, pur differenziandosi in altre sottofasi secondo l’età, è un pensiero concreto cioè strettamente legato al presente. Tutte le operazioni mentali dei bambini hanno bisogno di avere una corrispondenza con il mondo della realtà tangibile.
In adolescenza si attua il “salto di qualità” nella maturazione intellettiva rappresentato dalla capacità di svolgere ragionamenti astratti. Il contenuto delle operazioni non è più vincolato alla realtà presente, diventa possibile creare collegamenti e ipotizzare legami fra dati non direttamente osservabili; non a caso è questo il periodo in cui a scuola vengono apprese le equazioni matematiche e la soluzione di problemi a partire da ipotesi e procedendo per verifiche e falsificazioni.
Il passaggio dal pensiero concreto a quello astratto richiede all’adolescente la capacità di operare una sintesi fra i dati appartenenti al passato e al presente (deduzioni) e quelli che si riferiscono al futuro (capacità di formulare ipotesi) con gli aspetti di incertezza e problematicità che esso evoca.
La capacità dell’adolescente di pensare prescindendo dalla realtà concreta, insieme al bisogno di scoprire e inventare, favorisce lo sviluppo della creatività, ma anche della fantasia e dell’immaginazione centrate prevalentemente su di sé. La fantasia consente una sperimentazione “senza danno” e mette in moto i desideri che spingono all’azione e al comportamento; in questo senso riveste un ruolo non solo difensivo nei confronti della realtà, ma anche propulsivo per l’azione nella realtà.
I cambiamenti nei sentimenti e nelle relazioni con gli altri.
Come già sottolineato il compito prioritario dell’adolescente è l’acquisizione di un senso di identità personale in una fase di passaggio dal modo infantile (dipendente) al mondo adulto (autonomo). Contemporaneamente l’adolescente si deve separare dai vincoli precedenti e individuare e acquisire una propria autonomia di pensiero, emozioni, responsabilità e opinioni. Il dilemma che si ritrova a vivere ha a che fare sia con il bisogno di crescere ed emanciparsi dalla famiglia, sia con la paura di non essere in grado di farlo.
Le repentine trasformazioni dell’affettività in sentimenti tra loro contrastanti riflettono diversi modi di percepirsi rispetto il compito evolutivo. Spesso gli adolescenti esprimono sentimenti di tristezza, chiusura o indifferenza come se prevalesse la paura di crescere o il bisogno di preservare uno spazio privato. A volte trasformano il loro stato d’animo in una condizione di eccitazione o intraprendenza, segnalando la necessità di sperimentarsi o di proteggersi dalla depressione. Ciò che colpisce di queste manifestazioni è la loro intensità, è come se l’adolescente avesse difficoltà nel mettere insieme e modulare sentimenti diversi.
Il senso di solitudine che spesso può accompagnare i ragazzi di questa età, e che può derivare da una sensazione di “scopertura” rispetto alle garanzie dell’infanzia, viene affrontato attraverso il bisogno di intimità e di solidarietà con il gruppo degli amici (v. cap.7). L’intimità e la solidarietà permettono all’adolescente di entrare in contatto con altri due importanti stati affettivi: quello della condivisione e quello della cooperazione. Far parte di un gruppo è di fondamentale importanza poiché crea le condizioni di rassicurazione, un tempo garantite dai genitori, e consente al giovane di sperimentare diversi modi di essere e di proporsi in un contesto protetto.
All’intensificarsi del rapporto con il gruppo dei pari si accompagna anche la “crisi” nella relazione con l’adulto. Durante l’infanzia l’adulto rappresenta una fonte di sicurezza, i genitori in particolare sono delle figure idealizzate alle quali il bambino si affida totalmente e dalle quali riceve in cambio amore ed ammirazione.
Con l’avvicinarsi dell’età adulta il ragazzo oltre ad acquisire progressivamente degli strumenti, che lo rendono sempre meno bisognoso di affidarsi a qualcuno che lo tuteli, diventa in grado di percepire con sempre più chiarezza anche i “punti deboli” del mondo degli adulti. I genitori per primi si sentono scaraventati sul banco degli imputati accusati di essere fonte di delusione per il figlio che sembra vergognarsi di loro mentre fino a poco prima li adorava. Le piccole contraddizioni quotidiane, le ambivalenze e i dubbi dei genitori diventano da subito il bersaglio di critiche pungenti.
Le modalità relazionali adottate con i genitori riflettono, ancora una volta, il dilemma bisogno/paura rispetto la crescita. La svalutazione delle figure un tempo idealizzate consente all’adolescente di separarsi più facilmente da loro e di affrontare meglio il timore della dipendenza infantile. La precedente idealizzazione dei genitori viene sostituita dall’idealizzazione di figure esterne alla famiglia, che rappresentano ora le sirene dell’emancipazione.
Perché proprio il disturbo alimentare?
Come già affrontato nel capitolo dedicato alle cause dei disturbi alimentari, è stata ipotizzata l’esistenza di una serie di fattori individuali predisponenti. Tra quelli psicologici hanno un particolare rilievo i problemi di autonomia, insieme alla paura di diventare adulti, i deficit di autostima, il pensiero “tutto o nulla” e la mancanza di senso di controllo sugli eventi.
Sappiamo che i disturbi dell’alimentazione, in particolare l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa, insorgono nell’età adolescenziale. L’adolescenza come tutte le fasi di passaggio nella vita, pensiamo al matrimonio, la maternità/paternità, i cambiamenti di ruolo in generale, rappresenta un momento di vulnerabilità psicologica per la fragilità causata dalla perdita degli “schemi” precedenti e l’incertezza dovuta alla mancata padronanza di quelli futuri.
Inoltre i cambiamenti adolescenziali, ai quali abbiamo fatto riferimento all’inizio di questo capitolo, sono spesso accompagnati da ambivalenza, conflitto o difficoltà proprio nelle aree individuate come fattori predisponenti i disturbi alimentari. Qualora l’adolescente non sia in grado di far fronte al cambiamento è possibile che si produca una situazione di “blocco evolutivo” che può rappresentare un rischio per l’innescarsi di fattori scatenanti il disturbo alimentare.
Nel passaggio dalla dipendenza all’autonomia il disturbo alimentare potrebbe allora svolgere la funzione di mantenere una condizione di sospensione dove il ragazzo conserva modalità estremamente dipendenti rappresentate dalla mancanza di iniziativa, dall’assenza di bisogno di esplorazione del mondo esterno, dal ritiro dai rapporti con i coetanei e dall’assenza di progetti personali. In questo quadro di dipendenza quel che resta della rivendicazione di “autonomia” si restringe concentrandosi sulla sfera alimentare.
La paura di diventare adulti, se non risolta sostiene la permanenza in una condizione di dipendenza. Nell’anoressia in particolare la paura di crescere si manifesta anche a livello fisico: le ragazze anoressiche mantengono un corpo infantile che nega la femminilità anche attraverso l’assenza di ciclo mestruale.
Per il mantenimento della propria autostima (l’autostima si riferisce alla relazione esistente fra il concetto di sé di una persona e l’immagine ideale della persona che vorrebbe essere) l’adolescente attribuisce molta importanza alle relazioni con gli altri e al loro riconoscimento e conferma. Nell’adolescente in difficoltà ad un concetto di sé scadente corrisponde spesso un’immagine ideale quasi irraggiungibile, così che neanche le conferme esterne sembrano sufficienti a rassicurarlo circa il proprio valore.
Anche il tipo di pensiero “tutto o nulla” rinforza il sentimento di scarso valore in quanto la persona tende a classificare se stessa, le proprie prestazioni e il mondo che le sta intorno secondo due categorie: buono e cattivo. Tutto ciò che non è perfetto e ineccepibile risulta totalmente privo di valore. Le oscillazioni dell’umore dell’adolescente, dalla tristezza più cupa all’euforia, spesso riflettono questo modo di interpretare la realtà. Il desiderio di perfezione nelle persone affette da anoressia nervosa si manifesta nella ricerca e imposizione di diete severissime o in ogni caso in un’attenzione esasperata verso il proprio corpo. Nella bulimia il motore delle abbuffate sembra collegato proprio alla percezione di aver attuato una grave trasgressione nell’ingerire una quantità o qualità di cibo diversa da quelle considerata “ottimale”, ciò produce la sensazione di perdita di controllo che fa proseguire l’abbuffata.
Il timore di perdere il controllo sugli eventi, che l’adolescente si ritrova a sperimentare nella gestione della metamorfosi della sua persona, nelle ragazze con disturbi alimentari si ritrova in modo accentuato. L’incapacità di gestire le nuove relazioni e la nuova affettività si evidenzia nel tentativo di controllare i propri istinti e il proprio corpo al punto di trascurarne i bisogni fisiologici: l’alimentazione restrittiva esprime così il desiderio di controllare la fame e il vomito quello di riprendere il controllo perduto durante l’abbuffata.
Purtroppo il controllo del proprio corpo e delle sue necessità produce risultati opposti a quelli dell’autonomizzazione: il circolo della dipendenza è inconsapevolmente rafforzato in quanto le condotte alimentari anomale, all’interno del nucleo familiare, suscitano reazioni di apprensione e iperprotezione del tutto inadeguate rispetto l’età del soggetto.
In sintesi a partire da una problematica comunemente presente in età adolescenziale, il disturbo alimentare può rappresentare un tentativo, più o meno consapevole, di risolvere la conflittualità nelle aree dell’autonomia, dell’autostima e del controllo degli eventi, restringendo il campo di azione alla sfera alimentare, probabilmente vissuta in modo meno angosciante rispetto a quella affettiva, relazionale e sociale.
Il prodotto di questo percorso più spesso porta ad un rafforzamento dei problemi iniziali in quanto aumentano i livelli di dipendenza dalla famiglia, vengono abbandonati i rapporti con il mondo esterno (i coetanei, la scuola, il lavoro ecc.), si abbassano ulteriormente i livelli di autostima anche perché insieme all’aumento del perfezionismo e dell’ossessività nei confronti del cibo si restringono gli spazi di relazione e azione.
Malgrado esista un nesso fra le criticità che l’adolescente di trova ad affrontare e l’insorgenza di un disturbo dell’alimentazione, non dobbiamo dimenticare che l’adolescenza non è una malattia, ma una fase normale dello sviluppo; tutti gli adolescenti si trovano a dover affrontare il cambiamento senza che ciò li porti a sviluppare una patologia. L’origine e il mantenimento di un disturbo dell’alimentazione possono essere spiegati solo a partire da un modello multicausale che preveda la compresenza di diversi fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.
Accettare di curarsi è difficile?
Gian Luigi Luxardi, psicologo – Tania Rossi, psicologa
I disturbi del comportamento alimentare si definiscono disturbi egosintonici. Ciò significa che la persona che ne soffre li considera una parte di sé. In altre parole, una ragazza che soffre di anoressia considera la sua malattia, con tutti i disagi che comporta, come un aspetto della propria identità. Per quanto sia decisa ad affrontare la cura, la prospettiva di cambiare la spaventa come se al di là del suo disturbo ci fosse il vuoto.
Inizialmente questa difficoltà è dovuta all’importanza rivestita dal dimagrimento. La ragazza si è probabilmente impegnata molto in quel senso, ha pensato che le sue insicurezze e le sue difficoltà con gli altri sarebbero state superate se fosse stata più magra e quasi certamente ne ha avuto una conferma. Nella nostra società la magrezza riveste un valore importante e non è strano trovare qualcuno che incoraggia una ragazza normopeso che si mette a dieta. Inoltre, la restrizione alimentare è spesso un sinonimo di forza di volontà e di controllo su sé stessi. In questi termini la scelta di dimagrire si può definire inizialmente non tanto come un problema, ma come un tentativo di soluzione dei propri problemi. Un tentativo in cui la ragazza si sente finalmente efficace ed apprezzata dagli altri.
Oltre a questo rinforzo che proviene dall’ambiente circostante, la dieta restrittiva procura ben presto altre conferme del successo raggiunto e della bontà della via intrapresa. Dopo lo stress iniziale dovuto alla restrizione alimentare compaiono le conseguenze positive del digiuno, rappresentate da una sintomatologia conseguente ad alterazioni del metabolismo cerebrale ancora poco studiate.
Si avverte una sensazione di benessere diffuso, accompagnata da una straordinaria lucidità e talvolta da euforia. Accanto a ciò si insinua una sorta di iperattività che fa pensare alla persona di essere finalmente in grado di fare tutto quello che le interessa. Questo stato si è rivelato probabilmente molto utile alla specie umana, in passato, nell’attivare le energie necessarie alla ricerca del cibo nei periodi di carestia alimentare. Per ciò che riguarda però la ragazza anoressica, questa condizione di attivazione contribuisce a generare la convinzione di aver individuato la soluzione perfetta e a concentrare tutte le sue energie per mantenerla.
Si può facilmente immaginare come questo sia il momento in cui insorgono le prime incomprensioni con i familiari e l’ambiente circostante. Qualcuno si accorge che il dimagrimento si sta facendo troppo accentuato e lo fa notare. Di fronte alle considerazioni che le vengono poste in questo senso la ragazza si sentirà non capita, attaccata in ciò che finalmente le sta dando dei risultati, costretta a precipitare dal successo all’ammissione di un fallimento e difenderà strenuamente le scelte compiute a prezzo di una sempre più elevata conflittualità familiare. In questo momento l’importanza dei rinforzi sociali inizia a diminuire, mentre assumono una posizione centrale le conferme che arrivano dall’interno, quali il fatto di riuscire a seguire alla perfezione la dieta, il controllo su sé stessi, la vittoria sui propri istinti e infine l’indipendenza dal giudizio degli altri. La prima fase dell’anoressia, denominata “luna di miele”, in gran parte condivisa dalla bulimia, termina qui, spesso nel giro di pochi mesi.
Tuttavia questo periodo è sufficiente per creare un profondo legame con le condotte descritte, fino a confondere il mantenimento della dieta restrittiva con il proprio benessere e la propria integrità personale.
Accettare la cura in questo momento equivale ad abdicare a sé stessi, tuttavia è molto importante che la famiglia e gli esperti intervengano in queste fasi precoci quando il disturbo non è ancora stabilizzato e minori sono le complicanze organiche. E’ importante che chi viene in aiuto alla ragazza riconosca la positività del suo sforzo di migliorarsi mostrando che è la soluzione cercata, e non lei stessa, ad essere fallace.
E fondamentale far comprendere alla persona che la si accetta in quanto tale, in una situazione di rapporto caldo ed accogliente, ma anche mettere in discussione i suoi assunti, per esempio quello dell’importanza della magrezza. Quando il rapporto inizia in queste fasi precoci è necessario aiutare la giovane a riconoscere l’avvicendamento che si è verificato nel suo sistema di valori. E’ probabile che precedentemente al disturbo avesse una serie di interessi cui teneva molto: la scuola, le amicizie, un’attività particolare, un rapporto affettivo.
Ora sembra che tutto ciò sia decisamente secondario alla lotta che conduce contro i suoi istinti naturali per perdere peso. E’ proprio questo che voleva quando tutto è iniziato? O forse aveva pensato di perdere un po’ di peso per riuscire a inserirsi meglio con le altre persone?
Queste considerazioni fanno parte degli interventi sulla motivazione, che precedono il trattamento vero e proprio ed hanno lo scopo di favorire la disponibilità ad esplorare soluzioni diverse da quelle finora tentate. Nella fase successiva, definita avanzata, lo stato di benessere lascia il posto all’ossessione per il peso ed il cibo (vedi fig.2). Tutto, nella vita della ragazza anoressica, diventa cibo; l’attività mentale si riduce all’ambito dell’alimentazione.
Questo è il momento in cui alcune ragazze “scoprono” improvvisamente che il loro più grande desiderio è di fare la cuoca, oppure lasciano la scuola frequentata per un istituto alberghiero. Compaiono comportamenti compulsivi in ambiti che precedentemente si collocavano ai margini della quotidianità, quali fare la spesa, cucinare per i familiari (spesso con abbondanza di grassi), raccogliere e collezionare ricette di cucina. E’ evidente che questi comportamenti assumono una funzione vicaria rispetto al grande desiderio di cibo che si tenta di comprimere. L’altro versante è rappresentato dalla paura di lasciarsi andare e perdere il controllo.
La ragazza anoressica teme di non riuscire a controllare il desiderio del cibo e questa paura è resa ancora più terrificante dall’irrazionalità che caratterizza il pensiero: «Se mangerò anche solo una piccola cosa il mio corpo ingrasserà a dismisura». Se le difficoltà ad accettare il trattamento erano dovute, nella prima fase, alla convinzione manifestata sulla correttezza del proprio comportamento, in questo momento hanno a che fare con le difficoltà del pensiero. Il pensiero ossessivo conduce a comportamenti obbligati, al di là dei quali c’è spazio solo per la paura di ciò che potrebbe verificarsi, senza alcuna possibilità di individuare vie alternative. Il pensiero diventa concreto, legato alle piccole contingenze quotidiane, incapace di costruire ipotesi o progetti per il futuro. Nella relazione terapeutica, dopo aver stabilito una relazione di fiducia, questo è il momento in cui è necessario che la persona sofferente si affidi a chi la cura, delegandogli la gestione della riabilitazione nutrizionale.
Ciò è possibile in quanto si fa faticosamente strada, pur tra le difficoltà evidenti, la consapevolezza della precarietà della propria condizione e si manifesta autonomamente una richiesta di aiuto.

Fig.2 – Rapporto tra calo ponderale e ossessione per il cibo (da Dalle Grave, 1996 – modificato) Nella fase finale del disturbo, caratterizzata dalla cronicizzazione, nella maggior parte dei casi si assiste ad una presa di distanza dalla malattia. Gli sforzi e i sacrifici sopportati per tanto tempo appaiono senza scopo e ci si confronta con le limitazioni imposte alla propria vita.
Ciò non significa che sia scomparsa la paura del peso o che ci sia una maggiore tranquillità nell’abbandonare l’atteggiamento di controllo. Molto spesso accade che la cronicizzazione dei disturbi a carico del tratto gastrointestinale rendano ulteriormente problematico il ritorno ad una alimentazione regolare. L’elemento nuovo è rappresentato dalla consapevolezza della necessità di un aiuto, che si traduce in una richiesta pressante di terapia.
A differenza di ciò che accadeva nelle prime fasi, a questo punto il disturbo non viene più percepito come una propria scelta o addirittura come una parte di sé, ma come una malattia. L’insidia dei disturbi del comportamento alimentare consiste anche nel fatto che la disponibilità a curarsi è minima nel momento in cui il problema è più facilmente affrontabile e, viceversa, raggiunge la determinazione massima quando il disturbo è più stabilizzato. Affrontare il disturbo alimentare nella fase cronica è oggettivamente difficile per la presenza di complicanze organiche e per le conseguenze del ritiro sociale operato precedentemente.
Tuttavia l’esperienza clinica mostra come talvolta i risultati siano sorprendenti, grazie alla determinazione a risolvere il problema. E’ fondamentale in questa situazione un forte sostegno alla persona. Un’esperienza interessante è quella dei gruppi di auto-aiuto, in cui si realizza un sostegno reciproco e si crea la possibilità, per le persone che vivono una situazione di deprivazione sociale, di ricostruire un tessuto di relazioni significative e solidali.
È POSSIBILE USCIRNE: COME?
Io sono una ragazza anoressica che per vent’anni ha vissuto questo inferno, alternando alle fasi di restrizione alimentare quelle di abbuffate, con le relative conseguenze. È come essere nelle sabbie mobili: più ci si muove, più si affonda. Guardandosi intorno, però, si può scorgere un appiglio di quelli resistenti: aggrapparsi con tutta la forza è la soluzione per uscirne. Innanzitutto, bisogna VOLERE abbandonare questa situazione di autodistruzione. Il percorso è lungo, difficile, doloroso. Ma alla fine del tunnel c’è ancora la luce ! Da sola la persona non può riuscire: l’impresa è ardua e abbisogna della collaborazione della famiglia e di chi affettivamente è accanto a lei. Vivere accanto ad un’anoressica o a una bulimica non è facile: spesso noi siamo aggressive, ritrose, preferiamo la solitudine … Ma aiutandoci a togliere questa maschera ci si accorge che siamo vulnerabili, fragili, insicure e soprattutto abbiamo tanto bisogno d’amore! È molto importante trovare una persona nella quale avere fiducia: non qualcuno con cui vivere in simbiosi ma, al contrario, che ci stimoli, senza forzarci, ad essere noi stesse, responsabili delle nostre azioni, e delle nostre scelte, a camminare da sole sapendo però di poter contare su una presenza costante, sincera, sicura! Il fatto di scoprirsi libere da questa angoscia non è regalato: lo si guadagna giorno per giorno con fatica, poiché è difficile rinunciare ad una scelta di vita come la nostra, anche se sbagliata! Però, svegliarsi al mattino e sorridere guardando la pallida luce dell’alba, il sorgere del sole, respirare la brezza che accarezza la pelle, incantarsi osservando piccole cose, come un fiore o una farfalla, sono sensazioni che significano VITA, una vita che, comunque sia, va vissuta, cercando in ogni suo aspetto la positività e donandola a chiunque ne sia sprovvisto…e poi sentire vicino quella insostituibile presenza amica.
Dedicato a genitori e amici
Genitori e amici delle persone con disturbo alimentare
Marina Moro, psicologa
I GENITORI
Nei programmi di trattamento dei disturbi dell’alimentazione è utile poter contare sulla partecipazione e la collaborazione dei genitori. È risaputo che la maggior parte delle ragazze con questi disturbi sono molto giovani e la famiglia rappresenta il loro contesto naturale; inoltre, anche in età superiori, i problemi psicologici che presentano entrano in modo diretto a far parte della relazione con le persone a loro più vicine e spesso, proprio i familiari, chiedono di essere supportati per l’alto carico emotivo che questo comporta.
Coinvolgere la famiglia nel programma di trattamento non significa ritenere che in essa risieda la causa del disturbo.
L’opinione, in parte ancora diffusa, che esista una famiglia “anoressogena”, è derivata da numerose osservazioni e indagini compiute in passato, che però oggi hanno perso la loro attendibilità. Le caratteristiche familiari oggetto di quegli studi spaziavano dalle variabili sociali e demografiche a quelle psicologiche/relazionali.
Per quanto riguarda le prime, oggi sappiamo che i disturbi alimentari, pur essendo prevalenti nel sesso femminile, si distribuiscono uniformemente in tutte le classi sociali e livelli di scolarità. In passato si pensava che essi si sviluppassero in famiglie di livello sociale e culturale medio-alto; tale distorsione è derivata probabilmente da errori nella scelta del campione da studiare, che spesso rappresentava la popolazione che richiedeva le cure in strutture, che per i loro costi, non erano accessibili a tutti.
Entrando nel merito delle variabili considerate a maggior impatto psicologico, sono state condotte delle ricerche sui fattori familiari considerati scatenanti la malattia, in particolare è stato valutato l’effetto di eventi negativi come lutti, separazione o divorzio dei genitori, abuso sessuale ecc.. Poiché tali eventi si ritrovano con la stessa frequenza in diversi disturbi psicologici, non si è potuto dimostrare che essi siano direttamente collegati ad un disturbo specifico come quello alimentare.
Negli anni gli studiosi hanno proposto anche descrizioni dei tratti di personalità dei genitori, del tipo di relazione esistente fra genitori e figli e delle caratteristiche familiari riscontrabili dove esiste un disturbo dell’alimentazione. Queste descrizioni sono derivate dall’osservazione di casi clinici, cioè dallo studio di contesti dove il disturbo si è già manifestato; ciò impedisce di distinguere quanto il problema familiare rilevato sia la causa o la conseguenza della malattia. Oggi, inoltre, è stata superata la spiegazione dell’esistenza di un problema psicologico come collegato direttamente ed esclusivamente ad una causa e sono stati invece individuati una serie di fattori che si influenzano reciprocamente.
I fattori familiari che un tempo venivano considerati direttamente legati all’origine del disturbo alimentare, molto più probabilmente rappresentano una condizione che spesso accompagna e mantiene il sintomo. Per esempio l’ipercontrollo dei genitori sui figli, più che la causa della malattia, risulta una modalità di relazione che non favorisce l’uscita dalla malattia in quanto rinforza il problema dello scarso controllo della propria vita, che si ritrova nei pazienti con disturbo alimentare.
In quest’ottica i dati che derivano dalle osservazioni cliniche del passato diventano utili perché individuano alcune aree critiche di mantenimento del disturbo. Sulla base dei contributi dei diversi teorici le costanti individuate possono essere così riassunte:
¨ il disturbo diventa il centro attorno al quale ruota tutta la vita della famiglia,
¨ il nucleo familiare tende a chiudersi e a isolarsi,
¨ aumenta l’iperprotettività e l’ipercoinvolgimento,
¨ i confini fra le generazioni si offuscano.
Queste problematiche non sono specifiche del disturbo dell’alimentazione, in quanto sono ritrovabili anche in altri contesti dove è presente una malattia grave, ma interagiscono direttamente con la vulnerabilità psicologica delle persone con questi disturbi.
Questi ragazzi manifestano difficoltà nel controllo della loro vita, così la centralità che assume il disturbo all’interno della famiglia produce il risultato di perpetuare il controllo sul cibo come unico spazio di comunicazione e azione.
L’isolamento e la chiusura della famiglia non permette, né ai genitori né al figlio, di trovare degli spazi esterni di gratificazione e di confronto. L’isolamento, inoltre, aumenta i livelli di ansia, confusione e ipercoinivolgimento, che restringono gli spazi di razionalità. Gli studi sull’emotività espressa, che inizialmente si riferivano alle famiglie di pazienti schizofrenici, hanno valutato l’impatto del coinvolgimento emotivo “negativo” nella malattia di un familiare. E’ risultato che nelle famiglie che si caratterizzano per una alto livello di critica di comportamenti, ostilità e ipercoinvolgimento, aumenta il rischio di ricaduta del familiare. Quest’ipotesi non è stata confermata pienamente da tutte le ricerche sul campo, però è stato dimostrato che un miglioramento del clima affettivo consente maggiormente l’attivazione delle risorse e l’identificazione dei punti di forza della famiglia.
E’ comprensibile che il normale ciclo di vita della famiglia si arresti quando un figlio manifesta un disagio psicologico, ma è altrettanto importante non perdere di vista il compito evolutivo sia dei figli che dei genitori. La possibilità per un figlio di crescere in autonomia prevede la costruzione di uno spazio personale anche fuori dalla famiglia e richiede un cambiamento anche nei genitori, che a loro volta, devono poter ricostruire, o costruire, un loro spazio comune non centrato esclusivamente sul figlio. Questo significa che offrire aiuto al ragazzo ora richiede modalità diverse da quelle dell’infanzia: un modo possibile è quello di sostenerlo gradualmente nell’assumersi il problema, svolgendo più una funzione di “facilitatori” verso la cura che non di “controllori” del disturbo. La responsabilità del genitore consiste nel prendersi cura del figlio, non del disturbo, perché si curi nel modo migliore e possa riprendere il suo percorso di crescita.
Alla famiglia il ciclo evolutivo richiede molto, da un lato la stabilità e la chiarezza dei confini, dall’altro la flessibilità nel cogliere e affrontare i cambiamenti che avvengono al suo interno. I figli adolescenti, soprattutto se si trovano in difficoltà, hanno l’inconsapevole capacità di destabilizzare gli equilibri familiari precedenti, al punto che i genitori possono perdere sicurezza anche nell’affrontare momenti di vita in comune, che fino a quel momento venivano gestiti con assoluta naturalità.
I tentativi messi in atto dai genitori sono diversi, uno che si riscontra frequentemente consiste in un avvicinamento al figlio che si caratterizza però per aspetti più amicali che genitoriali. Questa situazione può portare ad un offuscamento dei confini generazionali; l’instabilità dei confini partecipa al mantenimento del disturbo perché produce un indebolimento della coppia nel far fronte al problema. A volte mentre un genitore si fa carico totalmente della problematica del figlio, l’altro rischia di rimanerne escluso, privato del ruolo che normalmente ricopre e quindi “inutilizzabile” sia per il figlio che per il coniuge.
Un esempio di questa situazione si ritrova nelle famiglie dove la madre, che più spesso svolge una funzione di accudimento, accoglienza e condivisione, aumenta il suo coinvolgimento con il figlio estendendo la sua disponibilità e tolleranza in tutti gli ambiti che lo riguardano. Il padre, a sua volta in difficoltà per la preoccupazione, spesso accetta l’espulsione dal rapporto madre-figlio, perde la possibilità di essere di sostegno alla madre e di rappresentare per il figlio una figura di riferimento stabile e “regolatrice”. Il disturbo alimentare può così dominare la scena e dettare le regole in casa perché collude con uno dei due genitori ed esclude l’altro. In certi casi ciò produce fra i genitori dei forti conflitti, sulle questioni che riguardano il figlio, che polarizzano le energie da utilizzare invece per aiutarlo a far fronte al problema. All’opposto la confusione generazionale e la centralità della problematica del figlio possono portare ad evitare i conflitti preesistenti nella coppia e questo, rappresentando una possibile stabilità familiare, può rinforzare la permanenza nella condizione di malattia.
L’esperienza diretta ci dice che le caratteristiche di relazione familiari che sono state osservate non possono essere estese in assoluto a tutte le famiglie. Tuttavia anche quando le condizioni relazionali alle quali abbiamo accennato brevemente, sono presenti, non dobbiamo dimenticare che in ogni famiglia esse rappresentano l’equilibrio che è stato possibile ottenere fino a quel momento.
La necessità di non perpetuare il disturbo richiede dei cambiamenti nelle modalità di comportamento e di relazione familiare, ma per produrli è utile comprendere prima la funzione che hanno avuto gli equilibri precedenti.
Per questo non sarebbe possibile nello spazio di queste pagine dare consigli o risposte che vadano bene per tutte le situazioni.
I genitori di ragazzi con disturbo alimentare frequentemente chiedono indicazioni concrete su come gestire situazioni contingenti come il momento del pranzo o i momenti di espressione del sintomo (digiuni, abbuffate, vomito, verifica ossessiva del peso ecc.). Altre volte chiedono aiuto per decifrare gli aspetti comunicativi che assume la condotta alimentare, nella sua capacità di farli sentire in scacco o in ostaggio.
Le risposte a tutti questi quesiti esistono, ma vanno cercate insieme, in uno spazio dedicato ai genitori, dove sia possibile collegare la situazione contingente alle chiavi di lettura già proposte e che riguardano il figlio come persona.
E’ la comprensione dell’interazione fra fattori familiari e fattori psicologici individuali, insieme ad una corretta informazione sul disturbo, che permette di individuare le zone di mantenimento del problema sulle quali agire.
L’AMICIZIA IN ADOLESCENZA
Insieme al cambiamento nella relazione con i genitori, in adolescenza l’ambiente esterno alla famiglia, in particolare il gruppo dei pari, diventa per il ragazzo un riferimento sempre più significativo per poter affrontare il suo percorso di crescita.
Non si tratta propriamente di una sostituzione della funzione dei genitori con quella degli amici, l’adolescente continua ad aver bisogno di essere in relazione con le figure genitoriali, ma necessita sempre più di potersi sperimentare all’esterno per trovare uno spazio nuovo al suo nuovo modo di sentire e di viversi.
I cambiamenti nelle relazioni vanno di pari passo con i cambiamenti negli stati d’animo e nei sentimenti. In adolescenza assistiamo alla nascita di nuovi bisogni motivati dalla metamorfosi del bambino in adulto. La necessità di acquisire un senso di identità personale richiede al ragazzo di sperimentare nuovi modi di relazione, diversi da quelli della dipendenza infantile. Il bisogno di individuarsi come persona richiede di poter preservare uno spazio privato, al riparo dal controllo genitoriale, dove potersi ritirare in solitudine, per dare spazio alla fantasia, o da poter condividere con i suoi simili.
L’amicizia con i coetanei è il migliore antidoto nei confronti dell’insicurezza; nell’amicizia è possibile sentirsi compresi: raccontare i propri stati d’animo aiuta a superare la vergogna dovuta alla paura di non piacere nell’aspetto, nello status sociale o nel modo di porsi.
Questo tipo di funzione solitamente viene svolta da un amico preferenziale, l’amico del cuore, che diventa depositario e depositante, a sua volta, di una sorta di segreto: l’amico non è più un semplice compagno di giochi, come nell’infanzia, ma è una persona che attraversa la stessa condizione emotiva.
Il gruppo degli amici nel suo insieme svolge una funzione meno intima e privata ma altrettanto utile per sedare le ansie dell’emancipazione. La solidarietà che si crea all’interno del gruppo fornisce le garanzie, un tempo offerte dalla famiglia, per sperimentarsi in modo protetto; la cooperazione permette di potersi attivare insieme rispetto uno scopo sentendosi così sostenuti e condividendo le responsabilità. Il gruppo permette anche il confronto con i cambiamenti degli altri coetanei e di trasformare la paura di essere diversi e di sentirsi esclusi nella possibilità di corrispondere ad uno standard, spesso rappresentato da una segnale visibile che contrassegna l’appartenenza a quel gruppo. Più grande è il senso di diversità ed inadeguatezza e maggiore diventa il bisogno di omologazione.
La necessità di corrispondere ad uno standard si esprime anche nella scelta di un leader all’interno del gruppo o nella idealizzazione di “personaggi”, fuori dalla sfera familiare, che solitamente rappresentano gli anti-eroi del mondo infantile.
La precedente serenità dei genitori nel guardare le amicizie dei figli viene turbata di fronte a delle scelte e ad una modalità di partecipazione finora sconosciute, ma il gruppo, salvo in caso di evidente devianza che segnala la difficoltà e il bisogno di aiuto del ragazzo, solitamente è il mezzo più adatto per traghettare verso la propria personale stabilità.
La Nutrizione
Sistema psicobiologico e alimentazione
Adelina Zanella, dietista
La nutrizione rappresenta una delle modalità più intime di relazione tra l’ambiente, che fornisce il cibo, e il sistema biologico che con l’assunzione, la digestione e l’assimilazione trasforma questo cibo in parte di sé. La psicobiologia osserva il funzionamento umano interpretando queste relazioni tra l’ambiente e la biologia che sono mediate dal comportamento.
L’alimentazione è regolata da sensazioni biologiche interne – fame e sazietà – che inducono l’assunzione del cibo e la sospensione di questo atto per un certo periodo di tempo.
Biologicamente queste due sensazioni dipendono da diversi fattori quali ad esempio la durata del digiuno, i bisogni nutrizionali, le condizioni generali dell’organismo e la presenza di particolari stati fisiologici o morbosi.
La visione del cibo, la sua presenza nel cavo orale, la permanenza nello stomaco inviano segnali fisiologici che inizialmente favoriscono e successivamente inibiscono la presa alimentare. Questo perché il cervello viene informato tramite “messaggi” ormonali e neurologici della qualità e quantità dei nutrienti ingeriti (fase postingestiva) e delle variazioni fisiologiche e metaboliche conseguenti all’ingestione di alimenti (fase pre- e postassorbitiva).
La sensazione di fame segue un ciclo di tipo circadiano sincronizzato dai periodi sonno-veglia a loro volta influenzati dall’alternanza buio-luce: infatti la sensazione di fame presenta un picco massimo nelle ore del primo pomeriggio e uno minimo nelle ore notturne, nelle quali scompare. Tale sincronicità è rafforzata o indebolita dal comportamento che determina le modalità dell’assunzione dei pasti: ad esempio la cadenza più o meno regolare della presa alimentare, la composizione e quantità dei cibi assunti.
Da quanto detto fin qui risulta che i “paletti biologici” che regolano l’assunzione del cibo sono la fame e la sazietà, ma che questi possono essere alterati da una serie di fattori di interazione tra l’esterno (ambiente) e l’interno (sistema biologico) influenzati dal comportamento.
Un esempio per tutti: seguire un regime alimentare insufficiente rispetto le necessità dell’organismo. Infatti determinare la fine di un pasto o la mancata assunzione di cibo non ascoltando i segnali interni (fame e sazietà), ma decidendolo cognitivamente (es. dieta restrittiva), a lungo andare altera la sincronizzazione di quei meccanismi metabolici, ormonali, neurologici che regolano la nostra nutrizione. Ma poiché non siamo in grado di controllare anche la cascata di effetti biologici conseguenti all’ingestione di cibo, il nostro organismo si difenderà dall’insufficiente presa alimentare determinando la perdita del controllo caratteristica delle abbuffate.
La riabilitazione nutrizionale dei DCA si propone di ristabilire le funzioni biologiche di regolazione dell’alimentazione, imparando a riconoscere e ad affidarsi ai segnali interni, sospendendo regimi dietetici incongrui qualitativamente e quantitativamente.
L’Obesità
Normalmente non incontriamo alcuna difficoltà nel riconoscere una persona come “obesa”, ma questo non significa che sia facile dare una definizione “oggettiva” di obesità. Possiamo identificare l’obesità come la presenza di un “eccessivo accumulo di tessuto adiposo”. Si tratta di una definizione medica e comunque parziale di un problema che richiede invece approfondite valutazioni antropologiche, storiche, sociali e culturali.
Nella storia dell’umanità, tranne che negli ultimi 50 anni, il problema principale è sempre stato la carenza di cibo: In tale condizione i nostri progenitori avrebbero tratto molti vantaggi da una efficace capacità di accumulare grasso, che rappresentava una invidiabile riserva energetica per i periodi di carestia. In condizioni di carenza di cibo la tendenza a mangiare tutto il cibo disponibile e la capacità di accumulare grasso rappresentavano un vantaggio e una difesa. Oggi invece, in presenza di una sovrabbondanza di cibo, assistiamo ad una frenetica e ossessiva ricerca di un corpo magro: mangiare in modo “misurato” è diventato oggi una necessità fisiologica e psicologica. Questa necessità di controllo del cibo e del peso è fortemente influenzata dalla cultura della nostra società, che condanna senza appello, dal punto di vista medico e sociale, l’obesità e ogni eccesso di peso.
La “spinta alla magrezza”, in presenza di una maggiore disponibilità pro capite di calorie (disponiamo di circa 3500 calorie mentre ne bastano circa 2400 per un adulto sano e attivo) e con un peso medio della popolazione che tende a crescere, crea un vero e proprio paradosso che conduce non di rado a comportamenti alimentari disturbati. L’oggetto del desiderio della nostra società è un corpo patologicamente magro. Sono sempre più numerose le persone che adottano comportamenti alimentari di controllo del peso
Per la definizione dello stato di obesità nelle persone adulte un grande aiuto viene dalla statistica. In base a peso ed altezza, secondo una precisa formula matematica, otteniamo un valore chiamato Indice di Massa Corporea (IMC) o, in inglese, Body Mass Index (BMI). L’IMC (o BMI) è stato introdotto alla fine dell’Ottocento dall’antropologo belga Quetelet. Si calcola dividendo il peso (in kg) per l’altezza (in m) elevata al quadrato, con la seguente formula: BMI = peso (kg) / altezza (m)2.
Il valore del BMI viene collocato in un continuum in cui la comunità scientifica internazionale ha individuato dei limiti che ci permettono di definire la condizione di sottopeso, di normopeso, di sovrappeso e di obesità, come rappresentato nel grafico riportato più sotto. A questi valori si collegano minori o maggiori rischi di morbilità (probabilità di contrarre malattie) e mortalità.
Malnutrizione: BMI fino a 17,5
Sottopeso: BMI da 17,5 a 18,5
Normopeso: BMI da 18,5 a 25
Sovrappeso: BMI da 25 a 30
Obesità: BMI oltre 30
In base al valore di BMI si possono valutare le aspettative di vita e di salute dell’individuo. L’aspettativa più elevata di buona salute e di vita coincide con la fascia del normopeso (18,5 – 25), mentre il rischio di morbilità e mortalità cresce man mano che ci avviciniamo agli estremi del sottopeso (17,5) e dell’eccesso di peso (30).
Questo criterio tuttavia merita una ulteriore precisazione poiché, se è valido per la media della popolazione, rischia di essere poco efficace per il singolo individuo. Infatti, il peso di una persona può essere fortemente influenzato ad esempio dalla consistenza della massa muscolare. Un atleta potrebbe in base alla sola formula matematica risultare nella fascia del sovrappeso o addirittura dell’obesità pur essendo “magro” (nel senso di una bassa percentuale di grasso presente nel corpo).
Per questo è necessario in alcune situazioni valutare anche il rapporto tra massa grassa e massa magra. Per valutare il rischio per la salute di un individuo ci sono altri parametri molto importanti come la circonferenza addominale a livello ombelicale, ottimo indicatore del rischio cardiovascolare. Il “valore soglia” è per il maschio 102 cm e per la femmina 88 cm, valori oltre i quali cresce molto il rischio di malattie cardiovascolari.
Molti altri fattori possono influire sulla definizione del peso di un soggetto: costituzione, familiarità, età, lavoro, storia del peso con dimagrimenti o aumenti significativi. In ogni caso il peso accettabile per un soggetto non potrà mai essere identificato con un numero ma con un intervallo di valori accettabili. Per tale motivo è preferibile fare riferimento al “peso ragionevole”, identificabile come il peso che un “singolo soggetto può facilmente raggiungere e mantenere nel tempo”, che favorisce una buona aspettativa di salute e una buona qualità della vita, frutto di una accettabile attività fisica e senza la necessità di adottare specifici stili alimentari, sacrifici, rinunce o pratiche dimagranti.
L’obesità nel bambino
Se la definizione di eccesso ponderale richiede tanta attenzione nell’adulto, il problema si complica ulteriormente nel bambino e nell’adolescente, che si trovano ancora in una fase di crescita e di cambiamento del loro corpo. Anche nei bambini e negli adolescenti si ricorre a valutazioni di tipo matematico-statistico; vengono considerati obesi i bambini il cui peso si allontana significativamente dalla media dei soggetti di pari età e sesso. Ciò significa che, ad esempio, vengono considerati fuori norma tutti i ragazzi il cui peso è superiore al valore entro cui sono compresi il 97% della popolazione in esame. Tuttavia questo criterio risulta criticabile se consideriamo che il peso medio dei bambini è via via cresciuto nel corso degli ultimi 30 anni. Vale a dire che chi veniva considerato obeso 20 anni fa oggi potrebbe rientrare nella media della popolazione. Per una definizione omogenea di obesità ci si basa oggi sulle tabelle dei percentili di BMI in base alle quali viene considerato obeso il bambino che supera il 97° percentile (o il 95°, negli Stati Uniti). In queste tabelle il BMI si differenzia per maschi e femmine e cambia nelle diverse età.
Da queste tabelle emerge che la quantità di grasso corporeo del bambino va incontro a variazioni fisiologiche durante la crescita e lo sviluppo. Nei primi anni di vita nel bambino sano si assiste ad un dimagrimento fisiologico, poi verso i 5-6 anni c’è un aumento del grasso corporeo. Questo sta a significare che in alcune età si cresce in altezza ma il peso resta fermo mentre in altre può aumentare il peso senza che cambi l’altezza.
Recenti studi hanno individuato limiti internazionali (cut off) utili per stabilire nei giovani di età compresa tra i 2 e i 18 anni i limiti del BMI che consentono la definizione di sovrappeso e di obesità. Valori di BMI certamente bassi, ad esempio 18 o 19, possono già indicare uno stato di eccesso di peso a 5-7 anni.
Nell’adolescente e nel bambino la composizione corporea e il rapporto tra massa grassa e massa magra sono molto importanti per definire lo stato di obesità; questo rapporto varia in rapporto all’età e al sesso. Per massa grassa intendiamo la quantità totale di grassi e per massa magra la muscolatura, l’acqua e le ossa. Dopo la nascita e sino all’età adulta si verificano numerose e importanti modificazioni di questi due compartimenti. Durante la crescita la massa muscolare passa da circa un quarto del peso corporeo nel neonato fino a più di un terzo del peso nell’adulto. L’aumento della massa muscolare è simultaneo a quello dell’altezza e presenta una crescente differenziazione tra maschi e femmine, tanto più pronunciata quanto più avanza la pubertà. è lenta durante l’infanzia e accelera durante l’adolescenza. In questa fase lo sviluppo del maschio si differenzia da quello della femmina, tanto che a 18 anni mediamente il maschio possiede una massa muscolare quasi doppia della femmina. La crescita del muscolo è continua fino ai 20-25 anni, quando raggiunge mediamente il suo peso massimo.
Perché il bambino diventa obeso
L’obesità è dovuta ad una pluralità di cause in cui gli aspetti genetici interagiscono in modo complesso con le condizioni sociali e ambientali.
L’individuo adulto, in condizioni normali, mantiene abbastanza costante nel tempo il peso corporeo. Si stima che nell’arco di vent’anni avvenga un’oscillazione del 10%, positiva o negativa, del peso medio. Oscillazioni superiori a questo valore sono ostacolate da meccanismi fisiologici attivi nel controllo del peso, che funzionano come una sorta di “adipostato” cioè come un sistema stabilizzatore del grasso corporeo. Se il peso tende a salire l’organismo spende più energia, al contrario, in presenza di una discesa del peso, si attivano meccanismi che portano ad un risparmio energetico.
Nel bambino la situazione è molto diversa, il suo peso è costantemente in aumento e anche il livello di adiposità, come già detto prima, varia in rapporto alla fase di crescita.
Un aumento eccessivo del peso di un ragazzo in crescita può essere dovuto a diversi fattori che ora proviamo ad esaminare.
Fattori genetici
È esperienza di tutti noi che in alcune famiglie e in alcuni gruppi etnici l’obesità è un problema ricorrente. Viene tuttora dibattuto a quale livello la genetica condizioni tutto ciò, se ciò sia da attribuirsi a livelli più bassi di spesa energetica a riposo o a processi che favoriscono l’accumulo dei grassi, che in passato avevano una funzione protettiva e di adattamento all’ambiente. La predisposizione genetica deve comunque associarsi ad una maggiore disponibilità di cibo. Diversi studi hanno portato a stimare che la probabilità che un bambino, con un genitore obeso, possa diventarlo a sua volta è intorno al 40%, se entrambi i genitori sono obesi la probabilità sale all’80%. Allo stesso modo un bambino di 6 anni obeso ha il 50% di probabilità di diventare un adulto obeso, queste probabilità salgono al 79% se ha almeno un genitore obeso. Non sono ancora del tutto chiari i meccanismi biologici di trasmissione di questa eredità, ma è plausibile che essi abbiano a che fare con le due componenti del dispendio energetico: il metabolismo basale, ossia l’energia che spendiamo per mantenerci in vita, e la termogenesi indotta dall’alimentazione, ossia ciò che consumiamo per digerire il cibo introdotto. Ciò spiega come mai, mangiando le stesse cose, alcuni individui non ingrassano e altri sì.
Nei noti dipinti di Botero vengono spesso rappresentate famiglie i cui tutti i componenti sono obesi; questa è una efficace rappresentazione della “familiarità” dell’obesità. Il fatto però che anche il gatto di casa sia obeso ci suggerisce che anche altri fattori sono da prendere in considerazione. È evidente che l’obesità si trasmette sia per mezzo dei geni che attraverso i comportamenti e lo stile di vita appresi in famiglia.
Fattori alimentari, sociofamiliari e ambientali
Fattori alimentari
Il primo “ambiente” di cui ci troviamo “ospiti” e con cui dobbiamo interagire è l’utero materno. Lo stato metabolico della madre influisce sul metabolismo del bambino. Durante la gestazione si differenziano i centri responsabili della regolazione della fame e della sazietà e viene incrementato il numero delle cellule adipose (adipociti). L’incremento eccessivo del peso della madre durante la gravidanza è un fattore di rischio per lo sviluppo successivo di obesità, ma anche una grave iponutrizione nel primo e nel secondo trimestre sembrano condurre alle stesse conseguenze.
Anche le modalità di allattamento sembrano essere associate allo sviluppo dell’obesità. Vi sono numerose conferme sull’effetto protettivo dell’allattamento al seno per cui è meno frequente in questi bambini lo svilupparsi di uno stato di obesità, mancano invece studi sulle modalità di svezzamento. Già in questi primi periodi di vita si manifestano processi di auto regolazione da parte del bambino, che possono essere favoriti o ostacolati da alcuni fattori. È noto, ad esempio, che un lattante può variare spontaneamente la quantità giornaliera di latte ingerito in relazione alla concentrazione e quindi alla densità calorica dello stesso. Questa regolazione spontanea può essere però alterata dalle pressioni a mangiare di più da parte dei genitori o dalla loro incapacità di dare risposte coerenti ai bisogni dei figli. Per ogni disagio la proposta risolutiva è offrire cibo. Il risultato di tutto ciò può essere la compromissione della costruzione di un efficace meccanismo di autoregolazione. Ogni spinta o freno a ridurre o accrescere l’alimentazione può ostacolare lo sviluppo di una autonoma capacità di percepire e rispondere ai segnali interni di fame e sazietà.
Fattori sociofamiliari
L’acquisizione di un efficace sistema di autoregolazione non ha tuttavia a che fare soltanto con la funzione alimentare. Come tutte le funzioni complesse del nostro organismo, essa investe una pluralità di sistemi, compreso quello affettivo. La qualità e le modalità di gestione del rapporto madre-bambino influiscono sui significati che il bambino stesso strutturerà inconsciamente nei riguardi dell’alimentazione.
Dopo la nascita e fino all’adolescenza le abitudini alimentari familiari condizionano fortemente lo sviluppo dello stile alimentare. È normale che genitori abituati a grandi quantità di cibo tendano a sovralimentare il figlio, il quale si adeguerà passivamente alle quantità di cibo, ai ritmi d’assunzione e svilupperà predilezioni per certi gusti piuttosto che altri. Il consumo familiare abituale di cibi ad alto contenuto di grassi e zuccheri ha come esito non solo un immediato eccesso nell’introito calorico, ma anche una stabile preferenza per cibi ad alta densità energetica, veicolata dall’abitudine ad un gusto particolarmente ricco e soddisfacente. La conseguenza è la costruzione di uno stile alimentare caratterizzato dal bisogno di grandi quantità di cibo e dalla predilezione per alimenti altamente gradevoli al palato. Inoltre, questi bambini mangiano più velocemente, masticano meno e non rallentano l’assunzione verso la fine del pasto.
Le stesse considerazioni valgono per l’attitudine ad una vita fisicamente attiva, che contempli lo spazio per il gioco e lo sport. Genitori che presentano uno stile di vita attivo o che praticano esercizio fisico hanno bambini più attivi e più magri di quelli che non hanno queste abitudini. Le condizioni di vita attuali, specie nelle città, non facilitano l’attività fisica del bambino. Spesso non è possibile giocare fuori casa e l’attività fisica diventa quella “programmata”, percepita generalmente come un sacrificio e un dovere dal genitore, che deve accompagnare e riprendere i figli presso le diverse palestre, e dai figli che vi vedono un ulteriore carico oltre a quello scolastico. Le attività sportive hanno spesso una forte impostazione in senso agonistico, che fa prevalere la dimensione dell’impegno più che quella gratificante del gioco.
La gratificazione di cui i ragazzi hanno bisogno viene invece trasferita nelle attività sedentarie (televisione, video giochi, computer) rispetto alle quali probabilmente il ragazzo avverte una diminuzione delle elevate pressioni già presenti nella sua pur giovane vita. La scarsa presenza di adulti in casa permette una sempre maggiore durata dell’esposizione a questi mezzi, che inconsapevolmente divengono delle speciali “baby sitter” dei nostri figli. Tali attività sono collegate a più livelli con lo sviluppo del sovrappeso e dell’obesità. Il computer sembra addirittura più problematico della televisione, poiché per l’atteggiamento attivo che richiede al bambino tende ad essere un buon sostituto del gioco e delle relazioni con i compagni. Uno studio americano, condotto su un grande campione di popolazione, ha calcolato che nell’arco di tempo che va dai 2 ai 17 anni questi ragazzi passano in totale una quantità di ore corrispondente a più di 3 anni davanti al video. Come non bastasse a questo vanno aggiunte in media più di 7 ore settimanali per i videotapes e almeno altre 5 ore per i videogiochi. Molti interventi mirati a ridurre la prevalenza dell’obesità nei giovani, attuati riducendo il tempo trascorso davanti alla TV e con i videogiochi, hanno ottenuto significative diminuzioni del peso e del BMI.
Il bambino sedentario entra in un circolo vizioso che tende a perpetuare e favorire la condizione di eccesso di peso, rendendolo meno agile nel gioco e nello sport, accrescendo così la frustrazione e il desiderio di evitarli. Il ragazzino finirà per trovare consolazione solamente nelle attività sedentarie solitarie. Il cibo potrà così diventare molto gratificante. Tutto ciò inevitabilmente porterà ad una perdita del controllo sul peso che aggraverà ulteriormente i problemi di partenza.
Fattori ambientali
Il bambino non è esposto unicamente alle abitudini familiari ma, sempre più precocemente, diventa oggetto delle sollecitazioni sociali che si manifestano attraverso la grande disponibilità di cibi ipercalorici, altamente appetitosi, e la costante pressione pubblicitaria ad aumentare il loro consumo.
Negli ultimi 50 anni il cibo è profondamente cambiato, passando da bene di prima necessità a prodotto commerciale che deve attrarre per essere acquistato. È sufficiente una rapida occhiata alle pubblicità alimentari di qualsiasi rivista per rendersi conto di come i produttori puntino a proporre alimenti sempre più gradevoli, gustosi, cremosi.
Nello stesso tempo si diffonde il fenomeno dei cibi dietetici o “light” a rimarcare una volta di più la necessità di essere magri e sani senza rinunciare al piacere del cibo. Purtroppo per avere più gusto, morbidezza e tutte le qualità che seducono i consumatori, è necessario aggiungere grassi e zuccheri rendendo in ultima analisi le pietanze molto più caloriche. Osserviamo, ad esempio, i panettoni. Quelli tradizionali sono pochi mentre sono sempre più numerosi quelli farciti, ripieni o ricoperti di creme e cioccolata. Una precoce abitudine e una consuetudine a cibi così ricchi di sapore crea un effetto di calibratura del gusto del bambino, che farà fatica a trovare gratificanti alimenti più semplici. In questa direzione vi è chi ipotizza, non senza ragione, che il cibo possa creare una sorta di dipendenza paragonabile a quella originata da una vera droga (il cibo come “addiction”).
Le caratteristiche fisiologiche del nostro corpo consentono ottime difese contro la carenza di cibo ma non sono idonee a proteggerci efficacemente dall’abbondanza. In caso di restrizione calorica, dovuta alla decisione di mettersi a dieta o alla carenza di cibo, il nostro organismo limita i consumi fisiologici e stimola il desiderio di mangiare. Al contrario, la disponibilità e l’assunzione di quantità elevate di cibo ad alta palatabilità e densità calorica promuove un aumento dell’adiposità ma non sempre riesce a limitare il bisogno di mangiare. Le sensazioni di fame e sazietà sono dunque asimmetriche, nel senso che la fame è uno stimolo potente verso la ricerca di cibo, mentre riusciamo tranquillamente a mangiare qualcosa che ci piace particolarmente anche se siamo sazi. In particolare i cibi ricchi di grassi, o di grassi e zuccheri, presentano il particolare potere di “ingannare” il senso di sazietà, inducendoci a mangiare non perché abbiamo fame, ma perché il cibo è buono. Vale la pena di ricordare, inoltre, che la volontaria restrizione, o meglio rinuncia, viene indirizzata verso i cibi che più ci piacciono e che più stimolano il nostro desiderio. L’effetto è che quei cibi entreranno nei nostri pensieri con lo scopo di controllarne il consumo ma facendoli in realtà diventare una vera e propria ossessione.
Il paradosso dei grassi
Gli alimenti ricchi di grassi hanno un particolare effetto sul nostro organismo. Un pasto molto ricco di grassi ci fa sentire sazi a lungo dopo averlo consumato, poiché fornisce al nostro organismo un notevole quantitativo di energia, cioè di calorie. Tuttavia, quando si mangiano alimenti ad alto contenuto di grassi o piatti molto conditi ed elaborati è molto difficile riuscire a fermarsi. La loro piacevolezza, il loro gusto ci porta ad ignorare i segnali precoci di sazietà.
La pubblicità martellante di prodotti alimentari è spesso presente nei giornalini e nei programmi rivolti a bambini e adolescenti. La fascia di età adolescenziale e ancor più preadolescenziale, lungi dall’essere protetta, è considerata la più promettente poiché molto recettiva e sensibile a questi messaggi; proprio perché ritenuta più influenzabile i messaggi pubblicitari vengono spesso specificamente creati e diretti a questa fascia di età. Molti nuovi alimenti sono stati studiati per piacere ai giovani e vengono proposti attraverso i sistemi tipici della pubblicità: partecipazione a concorsi e a premi, raccolta di figurine, punti e quant’altro in modo tale da sollecitarne costantemente il consumo. Dai media ci giungono continuamente stimoli al consumo di cibi attraenti, ben confezionati e ipercalorici, spesso sotto forma di snacks atti ad essere consumati al di fuori di ogni ritualità alimentare, nei più diversi momenti della giornata. A volte l’alimento assume un valore di tendenza, diventa “di moda”, e viene ricercato al di là delle sue caratteristiche nutrizionali. In senso più generale le modalità alimentari diventano tutt’uno con le abitudini e le forme di aggregazione, per cui la colazione si fa alla macchinetta della scuola o il pranzo al fast food.
I cambiamenti sociali hanno modificato profondamente la vita familiare, facendole perdere quella capacità regolativa dell’alimentazione data anche dalla ritualità dei pasti. Oggi è normale che la famiglia si riunisca a tavola solo per cenare, mentre durante il giorno ognuno pranza frettolosamente per conto suo. Spesso le scelte alimentari, per mancanza di tempo (ma anche perché si è persa l’abitudine a cucinare), ricadono su cibi pronti. Tutti questi aspetti hanno rimosso ogni argine a limitare consumi sregolati e inconsapevoli di cibo.
Quanti sono i bambini obesi?
La percentuale di persone obese nelle diverse aree del mondo presenta un trend di crescita tale da creare allarme sociale. Negli Stati Uniti la percentuale di popolazione in sovrappeso o obesa ha presentato un lento e costante incremento a partire dagli anni ’60 fino agli anni ’80, per presentare una vera e propria impennata negli anni ’80 e ’90. Durante questi due decenni la percentuale di soggetti con indice di massa corporea (BMI) superiore a 30 kg/m2 è quasi raddoppiata tra i maschi ed è aumentata di più del 50% tra le donne.
Studi condotti negli ultimi 40 anni indicano che negli Stati Uniti è in aumento anche la percentuale dei bambini in sovrappeso e obesi. Tra il 1963 e il 1970, in bambini di età compresa tra 6 e 11 anni, la prevalenza del sovrappeso risultava pari al 4,2%, mentre nei ragazzi di età compresa tra i 12 e i 19 anni il valore era pari al 4,6%. Secondo il National Health and Nutrition Examination Survey III (NHANES III) nel periodo 1988 – 1994 la prevalenza del sovrappeso nei due gruppi era salita rispettivamente all’11,3% e al 10,5%. Attualmente si stima che nella fascia di età tra i 6 e i 19 anni la percentuale dei soggetti in sovrappeso e obesi sia del 15%.
Negli Stati Uniti l’incremento riguarda particolarmente alcune etnie, le aree povere delle città, i bassi livelli socioeconomici che adottano una dieta stereotipata e hanno scarsa possibilità di fare attività fisica. Per contro nei paesi in via di sviluppo l’obesità infantile è più frequente nei livelli socio-economici più elevati che tendono ad adottare stili di vita occidentali.
Nell’Unione Europea, prima dell’ingresso dei nuovi dieci membri nel maggio 2004, secondo i dati della ”European Association for the Study of Obesità” la percentuale di adulti obesi oscillava, nei vari paesi, tra il 10 e il 20% per gli uomini e tra il 10 e il 25% tra le donne. Si stima che il 18% circa dei bambini siano sovrappeso od obesi.
In Italia ben un adulto su tre (33,4%) risulta essere sovrappeso, mentre il 9,1% è obeso. Dati tutto sommato confortanti se paragonati al 22% di obesi in Inghilterra o al 13% della Spagna.
Di segno opposto sono invece i dati che riguardano l’infanzia e l’adolescenza. Secondo i dati dell’Istituto Auxologico Italiano i soggetti in sovrappeso nelle giovani età sono il 30-35%, mentre quelli francamente obesi oscillano tra il 12 e il 15%. Il dato è ben oltre quello della media europea e supera anche quello dei paesi che hanno maggiori problemi di obesità tra gli adulti come ad esempio gli Stati Uniti. La Spagna presenta una prevalenza del 30% di giovani in sovrappeso, mentre l’Inghilterra si ferma al 22%. Pertanto, l’emergenza obesità nel nostro paese risulta particolarmente rilevante a carico dei più giovani. Si stima che approssimativamente il 25 e il 50% dei bambini obesi mantenga tale condizione anche da adulti con tutte le note conseguenze per la loro futura salute.
Per ciò che riguarda la distribuzione all’interno del nostro paese, il Sud e il Centro sembrano maggiormente colpiti del Nord. Secondo i dati raccolti dalla Società Italiana di Nutrizione Umana, a fronte del 10% di bambini obesi in Piemonte, il 13% a Milano e il 16% nel Nord Est, si riscontrano il 21% a Cagliari, il 23% in Abruzzo, il 24% a Bari e il 34% nel Lazio. Il fatto di vivere in città sembra rappresentare un fattore ulteriore di rischio, facilmente associabile alla limitata possibilità, per il bambino, di avere una vita attiva all’aria aperta.
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