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TESTIMONIANZE

Voci che aiutano a sentirsi meno soli

TESTIMONIANZE

Leggi le esperienze
di chi ci è già passato.

Chi ha vissuto un disturbo alimentare – o ha accompagnato una persona cara – sa quanto sia importante sapere che non si è i soli. Leggi le storie di chi ha trovato ascolto, comprensione e nuove possibilità.

Quando mia sorella, quasi diciotto anni fa, ha comunicato in famiglia un disagio che poi si è rivelato essere un disturbo alimentare, il mio primo pensiero è stato: ne verremo fuori. Ricordo di aver passato tutta la sera su internet per informarmi, perché non conoscevo quasi nulla del problema. Assieme alla mia famiglia, mi sentivo investito di un compito: trovare una soluzione e applicarla. Semplice e lineare. Inutile dire che mi sbagliavo di grosso. I primi tempi sono stati i più duri. Dopo la scoperta del problema, i comportamenti patologici di mia sorella (abbuffate, vomito autoindotto) si sono accentuati. Lei stessa ha ammesso più tardi che il fatto di non doversi nascondere le aveva dato una nuova libertà nel perseguire il suo obiettivo di controllo patologico sul suo corpo. Era difficile, all’inizio, capire come comportarsi. Consigli, commenti preoccupati, sguardi di disapprovazione avevano ovviamente un effetto opposto a quello sperato. Ma non si poteva neanche rimanere insensibili di fronte agli impulsi chiaramente autolesivi di mia sorella. È stato in quel periodo che mi sono accorto di avere a che fare con un problema profondo e ramificato, di cui l’aspetto alimentare era solo il sintomo esteriore. Un problema che nessuno di noi poteva risolvere dall’esterno applicando una qualche ricetta precostituita. Ricordo il primo ricovero di mia sorella, in ospedale: il suo sorriso triste, la richiesta angosciata in fondo ai suoi occhi. Ricordo di aver scritto in una poesia l’unica risposta che allora ero in grado di dare: “Passerà tutto questo? Sì, passerà”. Ma non ne ero affatto convinto. Mi aggrappavo a un ottimismo istintivo per scacciare il pensiero terrificante che in realtà non ci fosse nulla da fare. Come fratello mi sentivo in colpa di non essermi accorto in tempo del problema, e di esserne stato corresponsabile (senza volerlo, è chiaro) come parte di un meccanismo familiare non sempre sano. Al senso di colpa, reagivo a volte con un eccesso di coinvolgimento (“da oggi in poi mi comporterò in modo perfetto”), a volte con il rifiuto. Mi dicevo che avevo anch’io la mia vita e i miei problemi, e quasi mi “rifugiavo” in essi, sentendomi perfino un po’ invidioso di tutta l’attenzione che riceveva mia sorella. Erano reazioni normali. Tappe che dovevo compiere per arrivare al punto di essere davvero d’aiuto. Le cose hanno cominciato a migliorare con i primi ricoveri in clinica (nonostante le difficoltà connesse). L’esperienza del distacco e il colloquio con i medici e gli psicoterapeuti mi hanno aiutato a capire che il problema non riguardava me, e che per questo non spettava a me risolverlo. Mi vergogno a dirlo perché ora mi sembra una scoperta banale, ma al momento non lo fu affatto. Non fu neppure un’illuminazione momentanea, ma una presa di coscienza graduale. Era mia sorella a dover fare i conti con il “mostro”: la decisione di seguire la terapia e di affrontare tutte le difficoltà che essa comportava (comprese le inevitabili ricadute) era solo sua, e non poteva essere altrimenti. Come fratello, potevo solo contribuire a creare attorno a lei un ambiente favorevole e non farle mancare la mia fiducia nel fatto che potesse farcela. Mia sorella ce l’ha fatta. Non ha ucciso il mostro, ma è riuscito a chiuderlo in gabbia, impedendogli di influenzare la sua vita. Da anni, ormai, il problema non è più un problema. Le tecniche che nel frattempo ha imparato le sono utili in molti ambiti della vita: adesso è lei che aiuta me quando mi trovo in difficoltà. Se non ci fosse stata la malattia, forse il nostro rapporto oggi non sarebbe così profondo e sincero. Ho raccontato le mie emozioni perché forse possono essere di aiuto a qualcuno, ma non sono l’aspetto importante della storia. L’aspetto importante è il percorso di mia sorella: un percorso lungo e accidentato, che in un certo senso continua ancora, ma con molta meno fatica. Quando un nostro caro soffre, è normale soffrire con lui e chiedersi come aiutarlo. Vorremmo esprimere il nostro amore e la nostra vicinanza, ma in un caso come quello dei disturbi alimentari sembra che non esista un modo giusto di farlo – sembra che ogni gesto possa rivelarsi sbagliato. Non è così. Nel mio caso, la forma di amore migliore (quella di cui mia sorella aveva davvero bisogno) era la fiducia. Non è detto che valga per tutti, ma è una via possibile. E ce ne sono molte altre. Non bisogna mai stancarsi di cercarle.

Carissimi amici e compagni dell’ADAO,

… vi auguriamo che i vostri incontri siano fruttiferi e abbondanti di contenuti. Scusateci se la presenza della nostra famiglia all’associazione è mancata in questi ultimi tempi, ma stiamo affrontando un periodo molto duro e difficile della nostra vita, che, forse, ci farebbe anche bene condividere con voi per poter trarre, dalle vostre umili ma potenti parole e testimonianze, speranza e coraggio.

Come Paola già sa, … è stata ricoverata un’altra volta a causa delle sue condizioni precarie e critiche che a Pordenone non riuscivamo a risolvere. Questa volta, si trova a … presso una clinica psichiatrica; non si tratta di un ricovero di riabilitazione di un sintomo quale il disturbo alimentare, ma, questa volta, stiamo cercando di compiere un ulteriore passo in avanti e cercare di curare le cause che hanno portato … a soffrire così tanto, … troppo nell’arco della sua vita.

Molte volte la disperazione che proviamo dentro di noi è immensa, quasi paralizzante; poi, però, la fede in Dio e l’amore che ci lega, porta me a spronare … a stringere i denti e ad andare oltre, … oltre il male, senza fermarsi mai e senza guardarsi indietro.

Certo, la malattia porta a fermarsi, anzi crea un vero e proprio blocco, che pare quasi insormontabile nella vita, tanto che per noi, che abbiamo un figlio piccolo, è difficile essere genitori. Ma, anche in questo caso, è … il nostro piccolo, ad insegnarci più cose di quanto noi, adulti, crediamo di sapere e conoscere, e con un suo sorriso o la luce di gioia dei suoi occhi ci permette di renderci conto che l’importante è stare insieme, uniti. Siamo ciascuno, a suo modo, insostituibili e nella nostra unicità abbiamo bisogno dell’unicità dell’altro.

Abbiamo deciso di scrivere questa lettera, innanzitutto per essere in qualche modo in mezzo a voi e poterci stare con i modi che possiamo e, dunque, dirvi che vi vogliamo bene e per noi siete importanti; in secondo luogo, vogliamo dirvi, proprio ora all’apice del nostro dolore più grande, (e questo è un messaggio rivolto soprattutto ai “nuovi arrivati”), di non spaventarvi o perdere la pazienza di fronte al disagio e al disturbo alimentare.

Esso è un percorso che ci viene dato di compiere perchè, alla fine, possiamo rinascere persone nuove, rigenerate, ricreate, perchè Dio ha scorto in noi tutte le qualità per essere persone “diverse”, genitori, mogli, mariti o figli speciali.

L’ascolto e l’accoglienza di cuore sono gli ingredienti fondamentali per poter dare vita ad un dolcissimo e saporitissimo piatto, molto colorato, dove tutti in famiglia, come si fa ad un banchetto, possono mangiare con il sorriso tra le labbra, senza paure, perché la pace è sopraggiunta nei nostri cuori.

Per noi, il significato degli incontri in associazione si può riassumere in questa banalissima frase, pronunciata da …, durante le nostre passeggiate: “il fratello aiutato del fratello è come una roccaforte”.

Finché siamo legati tra di noi possiamo scambiarci tutti i nostri sentimenti, le emozioni, la paura, le preoccupazioni, l’ansia, ma anche l’entusiasmo per i primi passi verso il miglioramento delle persone cui vogliamo bene, vuol dire che un senso già è presente nella malattia ed è quello grandissimo, meraviglioso dell’incontro e dello scambio gratuito.

Quale dono è più prezioso?

Grazie della vostra amicizia.

Con affetto e stima.

Perché pensare che si può guarire?

Perché è vero. E’ molto più probabile che una ragazza con un disturbo alimentare guarisca, piuttosto che perseveri nella malattia e si trovi a dover convivere con questo problema tutta la vita. E’ possibile anche per chi, come me, mentre sta male è convinto che non guarirà mai. Dopo anni passati “in compagnia” dell’anoressia, ero convinta che non avrei mai recuperato un rapporto normale col cibo. Avevo elaborato una teoria per la quale io credevo di essere diversa dalle altre persone: io per “funzionare” dovevo per forza avere un disturbo alimentare. Ne ero talmente sicura da pensare che nessuno mi avrebbe mai persuasa del contrario. La condizione di “malata” in cui mi trovavo aveva un sacco di controindicazioni, ma i vantaggi che ne traevo mi avevano convinta che in fin dei conti ne valesse la pena. Ok, dovevo trattenere la fame, avere sempre freddo, essere nervosa e intrattabile, passare interi pomeriggi ad abbuffarmi e vomitare, ma tutto questo mi permetteva di ricevere particolari attenzioni dai miei genitori e dalle altre persone in generale, e soprattutto faceva sì che la gente non riponesse su di me troppe aspettative e responsabilità che mi facevano paura. Essendo malata ero giustificata in tutto, e non serviva che facessi nulla in particolare, e ad esempio non serviva che scegliessi che università frequentare, perché tanto, essendo ammalata, non avrei potuto seguire i corsi.
Razionalmente mi rendevo conto che c’era qualcosa di sbagliato… perché la maggior parte dei ragazzi della mia età non aveva i miei problemi? O comunque, perché riusciva ad affrontarli con la massima tranquillità? E’ stato guardandomi dentro a fondo che ho capito perché avevo paura di affrontare il futuro… ero sempre stata abituata infatti a pensare che se dovevo fare qualcosa, avrei dovuto farla perfettamente, altrimenti sarebbe stato meglio che neanche mi mettessi a farla. In poche parole, o ero sicura che avrei fatto ogni cosa a regola d’arte, oppure la lasciavo da parte e non la facevo nemmeno. Se da un lato questo tipo di ambizione ti porta ad ottenere dei buoni risultati, dall’altro ti costringe a valutare ogni scelta come se si trattasse di una questione di vita o di morte. Non esistevano piccoli errori per me. Un errore in quanto tale era qualcosa di deturpante, non lo potevo accettare, neanche se piccolo. Ad esempio l’idea di iscrivermi ad un’università e poi accorgermi che non mi piaceva, che non faceva per me, mi faceva rabbrividire, e sarebbe stato un fallimento totale. Paralizzandomi all’interno della “gabbia” dell’anoressia, non avrei dovuto più prendere decisioni, ed assumermi l’eventuale responsabilità di aver sbagliato la scelta, cosa che peraltro succede molto spesso e non è certo così grave!
Preferivo rimanere ferma dov’ero piuttosto che rischiare di partire e cadere, pensando che stando ferma avrei potuto avere comunque le mie soddisfazioni. C’è voluto un po’ di tempo per rendermi conto che se anche io restavo ferma, il resto del mondo continuava ad andare avanti, e le soddisfazioni che i miei coetanei man mano ottenevano erano molto più solide e reali rispetto a quelle che ottenevo io vedendomi dimagrire. Una vita dedita alla magrezza non mi avrebbe mai resa veramente soddisfatta ed orgogliosa di me. Non avrebbe mai fatto di me una persona su cui contare, una persona che si spera di conoscere nell’arco della propria vita. Volevo farmi ricordare per quello (anche se poco) che avevo fatto nella mia vita, o per essere stata una ragazza malata? A differenza delle altre malattie, noi qui possiamo decidere di uscirne. Possiamo decidere di lottare contro noi stessi e contro le nostre convinzioni per cambiare le cose.
Pensavo che il trattenermi dal mangiare potesse essere sinonimo di grandissima forza di volontà da parte mia. In realtà, l’idea di disfarmi dall’anoressia, mi richiedeva molta più forza di volontà che rimanerci lì dentro. Ormai ero abituata a stare lì, buona buona magra magra, e l’idea di vedere come sarebbe potuta essere la mia vita senza malattia non mi interessava, anzi, mi faceva paura.
Avevo paura di non stancarmi mai della malattia. Le mie amiche uscivano, facevano festa, si divertivano, ma a me non interessava. Non avrei mai trovato interesse in cose del genere perché a me interessava solo il cibo, il mio peso, le calorie, i miei vestiti che riempivo sempre meno. Alla fine ad un certo punto ci si stufa. E’ inevitabile che succeda, e quando ti rendi conto che non ne puoi più, lì veramente devi tirare fuori i denti. Devi riflettere tantissimo su quanto ti fanno male le cose che ti imponi di fare, gli obblighi che ti imponi quotidianamente di seguire. Ti logorano, ti rendono sempre più apatica e meno interessante.
Quando nel 2005 sono stata ricoverata in clinica per la prima volta, ricordo che non sentivo più alcuna emozione: io che ero sempre stata una ragazza molto sensibile, non riuscivo più né a gioire né a commuovermi, per nessun motivo. Temevo che le mie emozioni le avrei perse per sempre, che non mi sarei mai più entusiasmata, che non sarei mai più riuscita a piangere. Non è così. In realtà l’apatia è data dal sottopeso, e appena recuperi un peso accettabile piano piano le sensazioni tornano a riaffiorare. Ero inoltre convinta che per guarire sarebbe bastato tornare al peso che avevo prima di ammalarmi. Ma quella volta avevo tredici anni, nel 2005 ne avevo 18, e non potevo pretendere di pesare uguale. Ma soprattutto ora, col senno di poi, mi rendo conto che continuavo a basare tutto sul mio peso.
Per la cronaca, ora peso circa 18-19 chili in più del peso minimo mai raggiunto. Giuro che mi vedo esattamente come mi vedevo quella volta. Anzi, forse ora mi vedo più magra di allora! Sembra impossibile, ma è così! Penso spesso che se qualcuno, quando ancora stavo male, mi avesse detto che una volta ripreso peso non mi sarei assolutamente vista “grassa”, forse sarebbe stato più facile lasciarmi andare e fidarmi di chi in qualche modo cercava di aiutarmi.
Ora poi riesco ad affrontare i miei problemi. Ne ho, tanti, ma come tutti, ma rispetto a prima, mi concedo la possibilità di sbagliare e per questo non mi precludo alcune possibilità. Non avrei mai creduto, davvero, che sarei riuscita ad uscirne, e soprattutto ad uscirne così bene. Mangio tranquillamente qualsiasi cosa, le fobie rispetto al cibo e l’ansia che avevo nel mangiare, sono completamente scomparse. Mi concedo di tutto, e una volta raggiunto il mio peso forma non l’ho più superato, pur mangiando tranquillamente come tutte le persone. Devo fare un po’ di ginnastica per tonificare, ma soprattutto perché mi sfoga e mi libera la mente dallo stress della giornata, e non la faccio certo perché mi sento in colpa per quello che mangio. Esco con gli amici, vado in giro, finalmente ho avuto il coraggio di prendere la mia strada, diversa da quella che magari si sarebbero aspettati i miei genitori, ma che mi piace, per cui mi sento portata, e che voglio continuare il più a lungo possibile…

Citiamo da “Vanity Fair” n. 7/2009

 

Cara Dottoressa,
ho letto la lettera della «diciottenne confusa» (n. 4), e quel grido: «Come fa mia madre a non vedere?» ha continuato a rimbalzarmi dentro come la pallina di un flipper. Io di anni ne ho parecchi di più, sono in un’età in cui i miei problemi li devo e voglio affrontare da sola. Ma quella domanda mi fa ancora male.
Sono stata un’adolescente cicciottella e solitaria, non mi sono mai piaciuta, ma in qualche modo convivevo con me stessa. Poi qualche chilo messo su a Natale, una dieta per rimettermi in forma, i complimenti che diventano un’arma a doppio taglio. E il peso che ha continuato a scendere. Non mangiando mi sembrava di mantenere il controllo almeno su me stessa: non mi rendevo conto che lo stavo perdendo.
Sono passati cinque anni, adesso ne ho 31, sto meglio ma non bene. Ed è una coltellata quando mia madre mi chiede come va il mio stomaco.
Mi viene voglia di gridarle in faccia che il mio stomaco non ha mai avuto niente, che è la testa che non va, che non è la gastrite, che sono stata anoressica e ora sono bulimica. Forse è colpa mia che non volevo parlargliene per vergogna, perché mi sento stupida, come se fosse vero che chi ha disturbi alimentari ci cade perché ha l’obiettivo di essere una modella e non per insicurezza e senso di inadeguatezza e quel terribile senso di vuoto che nemmeno «tutto il pane del mondo» potrà mai colmare. Ma fa lo stesso male che lei non abbia saputo o voluto vedere. La capisco, ho il mio bel caratterino e magari, se usasse il vero nome delle cose, sarei capace di prenderla a male. Ma in fondo, forse, mi sentirei meno sbagliata.
L.
Questa lettera, cara L., è meglio di un manuale di psicopatologia dei disturbi alimentari. Meglio, perché c’è tutto quel che c’è da capire, ma c’è anche tutto il dolore che un’esperienza come la tua scaraventa sull’anima. C’è il tema del controllo o, meglio, di quell’illusione di controllare tutto e tutti controllando il proprio corpo e finendo poi in realtà per smarrirsi sempre più. C’è il tema del vuoto, incolmabile. C’è il tema del pieno, insostenibile. C’è il senso di colpa, accanto all’orgoglio smisurato. C’è la grande ambivalenza che ci fa desiderare fino allo struggimento una vicinanza che, al tempo stesso, è temuta e respinta. La vicinanza con la madre, più di tutto, una mancanza straziante e insieme un pericolo da sventare a ogni costo. E poi c’è anche la consapevolezza di quell’odiosa banalizzazione mediatica secondo cui le ragazze anoressiche sarebbero le vittime sciocche e passive dei modelli femminili dominanti. Come se, una volta convinti gli stilisti a far sfilare dalla 44 in su, potessimo risolvere il problema. Un altro modo, subdolo e sottile, di squalificare le donne.
Anoressia e bulimia sono un male grande, profondo, complicato. Che ha la perfidia di attecchire preferibilmente sul terreno fertile di personalità ricche e complesse, di ragazze sensibili e intelligenti e profonde. Proprio come te, cara L. Altroché sbagliata. Con tutto il rispetto per le mamme che non sanno o non possono vedere – forse perché non hanno potuto vedere se stesse – a sbagliare semmai è qualcun altro. Coraggio, dunque. Le cose che scrivi sono gravide di consapevolezza di te. E la consapevolezza è una forma d’amore. Una forma alta di amore per se stessi. Dai che ci siamo quasi!
(Dott.ssa Irene Bernardini)

Storia di una bambina obesa

(da Un boccone dopo l’altro, Roberto Ostuzzi & Gian Luigi Luxardi, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2007)

 

“Peso alla nascita 3.900gr”. Posso tranquillamente dire che è stata l’unica volta in vita mia in cui ho avuto un peso “normale”.

Sono nata il 10 ottobre alle 8 di sera, una bilancina ascendente leone. Sono la primogenita. I miei erano sicuri che mi aspettasse un luminoso futuro. Ero una bellissima femminuccia, anche le foto lo confermano, ero ben proporzionata. Assomigliavo a mio padre, ma in versione bella, stando a quanto dicevano parenti e amici.

Mia madre non aveva latte e questo l’aveva gettata subito in una cupa rabbia. Avrebbe voluto a tutti i costi potermi nutrire lei direttamente al suo seno. Pazienza, mi sarei dovuta accontentare di una “latte speciale”. I primi 6 mesi sono stati un continuo rigurgito e un susseguirsi di pianti disperati: di notte non lasciavo mai dormire nessuno. Mia madre era molto ansiosa, mi pesava di continuo, temeva che potessi ammalarmi, che non crescessi. Mi pesava prima della poppata e subito dopo. Più che poppata dovrei dire biberonata. Non crescevo di peso, il pediatra veniva interpellato di continuo. La nonna materna che abitava lì vicino era sempre preoccupata, e si recava spesso da noi a dispensare i suoi consigli. Mia madre si sentiva certamente colpevole, inadeguata, e ancora oggi ricorda con dispiacere il fatto di non avermi allattato al seno. Questo fatto le creava una specie di paura di non essere all’altezza, di non saper nutrire la sua adorata figlia.

Per fortuna di mia madre, e forse anche mia, dopo i 6 mesi decide di tornare al lavoro e io vengo affidata alle nutrienti cure della nonna. Da quel momento, tranne rari momenti in cui il mio corpo proprio non ne voleva sapere di crescere in altezza, l’ago della bilancia è sempre salito con velocità autonoma, con scatti a volte repentini, senza tenere in giusto conto la mia crescita in altezza.  Sino ai 6 anni stavo quasi tutta la giornata con la nonna, donna energica che aveva cresciuto 4 figli. Accudiva, oltre a me, altri due nipoti, figli dello zio materno. Eravamo in tre e giocavamo sempre, tra noi e con la nonna. Il nonno stava poco in casa ma era sempre lui ad accompagnarci da qualche parte: all’asilo, dal medico, per il rientro a casa.

La casa dei nonni era vicina, meno di un chilometro, da quella dei miei genitori.

La nonna era un’ottima cuoca, e con il suo carattere energico teneva a bada il marito. Il nonno era un pensionato, aveva il diabete e doveva stare attento agli zuccheri. La nonna lo sorvegliava per i dolci e per il vino. Non ne limitava il consumo, aveva abolito entrambi. In una parte segreta della dispensa c’erano dei dolci ma erano per noi bambini, erano il premio se eravamo buoni.

Il peso già cominciava a preoccupare i miei genitori, ne parlavano con la nonna che non sentiva ragioni. Lei faceva da mangiare cose buone, sane e secondo lei un po’ di ciccia era solo il segno della nostra salute. In realtà ero io quella che più rispondeva positivamente alle proposte culinarie della nonna. E il mio peso saliva. La nonna era orgogliosa di me: ero calma, non facevo mai danni, ero ubbidiente e affidabile e dimostravo di apprezzare i suo sforzi culinari.

Quando la sera mio nonno mi riportava a casa dai miei genitori di solito avevo già mangiato. A casa festeggiavo anche con i miei, mi mettevo di nuovo a tavola con loro, erano stanchi ma felici, mi adoravano. Mangiavo di gusto e loro gioivano. Così riuscivo a fare felici tutti, nonni e genitori. D’altra parte avevo la chiara sensazione che darmi da mangiare fosse l’attività per loro più gratificante. Anche a loro piaceva mangiare. Eravamo una famiglia felice, almeno credo.

Certo mia madre era sempre apprensiva, mi chiedeva se avevo riposato, fatto i compiti, se avevo fatto merenda e cosa avevo mangiato dalla nonna. Una volta ricordo che la mamma e la nonna bisticciarono e capii che era a causa mia che ciò succedeva. Mia madre rimproverava la nonna perché mi riempiva la pancia di un sacco di schifezze: dolcetti, merendine e pastine. Ero grassa e dovevano stare attenti al mio peso, non voleva che diventassi grassa come lei.

Da allora smisi di raccontare a mia madre la verità su quello che mangiavo quando andavo dalla nonna. La nonna lo aveva capito e mi faceva intendere che la nostra alleanza, il nostro segreto, era un segno del nostro affetto. Potevamo stare tranquille perché ci capivamo bene.

Quando avevo 5 anni nasce il mio fratellino, Marco.

Mia madre decide allora di stare a casa dal lavoro.

Tutto procede bene. Spesso ero triste, non avevo più i miei cugini con cui giocare, mia madre aveva sempre paura di non sapere bene come allevare i figli. Per ogni minimo problemino finivamo dal pediatra e a volte non bastava e pareva necessario sentire uno specialista. Mio padre diceva sempre sì, lamentava questo continuo ricorrere dal medico ma se era necessario lo si doveva fare. La nonna rimproverava sempre mia madre: “non sai fare questo e quello, non vedi che la bimba non sta bene, non ti accorgi è vestita troppo, avrà mangiato abbastanza?, coprila di più! etc etc”

Anche la mamma aveva messo su qualche altro chilo di troppo. Un giorno ha deciso che era giunto il momento di dimagrire. Avevo 8-9 anni. Iniziò una stagione di minestroni. Minestrone a pranzo e zuppa di verdura la sera. Era un gioco, all’inizio bello e divertente ma in seguito ci ritrovavamo a mangiare tristemente e a scherzare sulle linguine al pesto o gli spaghetti al ragù o la cotoletta alla milanese. La dieta valeva solo a casa e per me era attenuata, certo non valeva quando si andava dai nonni o dagli zii. Non valeva in assoluto per il papà che non ne voleva sapere. Neppure alle feste valeva, in quelle occasioni ci concedevamo un piccolo dolcetto, così piccolo che a me e alla mamma dava solo sofferenza. Di nascosto dalla mamma qualche volta il papà mi allungava un boccone di qualcosa di buono. Dopo neppure tre mesi, una sera, ne venne decretata la fine. Mia madre aveva perso 5-6kg, io forse 1-2. Non lo sapevamo con certezza perché c’erano sempre problemi con la bilancia. Si era stabilito di pesarsi una sola volta la settimana, la domenica mattina. Era divenuto un rito, inizialmente scherzoso ma ben presto divenuto angosciante. Avevamo sempre una scappatoia quando il peso non era quello atteso; dicevamo “forse non funziona, le pile saranno scariche, l’intestino non è stato regolare, avrò trattenuto più liquidi”. Sono certa che mia madre si pesava all’epoca anche di nascosto negli altri giorni. La pesata domenicale era un rito doloroso che decretava se quella domenica era tranquilla, se si poteva mangiare ciò che si voleva o se si doveva sì mangiare quello che si voleva ma un po’ di nascosto e con sensi di colpa.

Verso i 10 anni ci fu la fase dell’attività fisica. Mia madre era in palestra tutti i giorni, mio padre incoraggiava tutto questo. Lui era uno sportivo, voleva che mia madre riprendesse a sciare. Io venni iscritta ad una società di pallavolo. All’inizio mi divertivo, era bello stare con altre ragazze, alcune della mia età e altre un po’ più grandi. Dopo i primi due mesi si doveva poter iniziare a giocare. Alle prime partite partecipai ma in seguito non venivo messa in squadra. Un giorno l’allenatore mi disse che forse avrei dovuto mettermi a dieta, che lui mi poteva dare alcuni buoni consigli. Alcuni giorni dopo mia madre a tavola riferì a mio padre che l’allenatore le aveva suggerito di mettermi a stecchetto. Dovevo dimagrire, era un imperativo. Quella sera piansi da sola in camera mia. Sentivo il peso del giudizio dell’allenatore (e sono certa anche delle compagne) e il dispiacere e la delusione di mia madre. Per un  po’ provò a portarmi a correre con lei ma lo sforzo sembrava sempre sproporzionato ai risultati. Chilo più o chilo meno non mi sembrava che nulla cambiasse e sentivo che mi mancava qualcosa per poter dimagrire. Meglio stare a studiare, lo studio mi dava grandi soddisfazioni. Lì ero io la campionessa. I miei compagni mi chiedevano sempre aiuto e le altre mamme erano felici se uno di loro veniva studiare con me.

Ricordo bene quando, all’età di 11 anni, per l’ennesima volta, e non  certo l’ultima, mia madre sentenziò “da domani ci mettiamo a dieta, ma una vera dieta”. Aveva deciso di farmi fare la dieta sotto controllo medico dopo che il nostro pediatra, durante una normale visita di routine, aveva proclamato, con aria mista di preoccupazione e di rimprovero, ”questa bambina pesa troppo, è troppo grassa e dobbiamo fare qualcosa”. Per me non era una novità, già altre volte le battute di qualche parente, mio padre stesso, avevano sottolineato come con un evidenziatore che avevo la pancia, le gambe erano troppo grosse, insomma: ero una cicciona.

Da almeno un paio d’anni mia zia, la sorella di mia madre, quando veniva a cena da noi la domenica rimproverava mia madre perché diceva che non stava attenta alla mia alimentazione. Il ritornello era sempre quello “troppo grassa, dovete fare qualcosa per farla dimagrire”. Mia madre soffriva di questo, si capiva che si sentiva accusata e si lamentava con mio padre e indirettamente con me. Che colpa aveva lei se io continuavo a chiedere da mangiare, d’altra parte mangiavo così di gusto che non se la sentiva di limitarmi. Farmi dimagrire era impossibile, a loro dire io mancavo completamente di forza volontà; se la nonna e la zia avessero provato a farmi dimagrire – diceva mia madre – se ne sarebbero rese conto in prima persona. Quante volte provando a fare la dieta, cioè a tentare di dire no a quello che più mi piaceva (pane, pasta e dolci in ordine sparso), già il primo giorno mi ero messa a piangere, volevo ancora un po’ di pasta o degli altri biscotti. Anche mia madre pesava troppo, aveva una lunga e frustante esperienza di lotta contro la ciccia. Lei almeno aveva delle giustificazioni: era ingrassata con le gravidanze, in particolare la mia, la prima, le aveva fatto guadagnare non meno di 15kg. Mio fratellino, di 5 anni più piccolo, lui era magro e scatenato. Eppure eravamo figli della stessa famiglia, non si capacitava di questa differenza. La figlia più grande bella paffuta, per non dire grassa, buona e pigra, studiosa e responsabile; il figlio maschio più piccolo scatenato, iperattivo e magro. Mia madre lodava sempre le mie qualità di studio e di saggezza e le contrapponeva all’iperattività, svogliatezza e menefreghismo di Marco. In verità non si capiva bene per chi facesse il tifo perché almeno Marco era una “simpatica canaglia, magro” mentre io ero una “brava bambina che non da nessun problema ma grassa”. Ero infelice ma non potevo e non riuscivo a farlo vedere, mi facevo andare bene tutto, per non tradire la fiducia degli altri nel mio essere brava.

La grande sofferenza per il corpo stava per me in due aspetti.

Il primo erano le prese in giro dei compagni che non mi risparmiavano mai. “cicciona, ciccia bomba, grassona” erano gli epiteti più frequenti e neppure i più volgari. Sorridevo, non ascoltavo, cercavo di rispondere con parolacce e offese a questi attacchi, ma era difficile far fronte non ad uno ma a venti compagni per i quali mi sentivo come la rappresentazione di tutto ciò che più disgustoso ci può essere. Avevo qualche amica, ma quelle due o tre amiche erano comunque ragazze ai margini, le più sfigate, studiose e un po’ imbranate. Le ragazze “speciali”, che contavano, quelle la cui compagnia veniva ricercata, avevano per me solo brutti commenti. Mi evitavano allo stesso modo con cui avrebbero evitato un paio di jeans fuori moda, assolutamente sbagliati.

Il secondo aspetto difficile della mia condizione era rappresentato dal momento in cui mia madre decretava che bisogna andare a fare compere, trovare dei vestiti per me. Anche in questo caso la sofferenza era forte, dovevo fare sempre finta di niente. Giravamo molti negozi ma mia madre non trovava mai nulla che mi stesse bene, vestiti adatti a me sembravano non ne esistessero. Non trovavo nulla di pronto, tutto si doveva allargare, adattare, sistemare. Mia madre era veramente sconfortata e sentivo sempre un suo profondo senso di vergogna e colpa per la mia condizione. Le commesse, poi, sottolineavano perfidamente le mie forme, con un’aria mista di comprensione e insofferenza ribadivano la necessità di entrare almeno in una 46. Mi guardavano come un fenomeno strano. In fin dei conti non bastava forse darmi un po’ meno da mangiare! Eppoi, suvvia cosa ci voleva per farmi capire chi così non poteva andare. Cosa c’era nel mio cervello che non funzionava, non avevamo forse uno specchio in casa?

Mi restava poco spazio per avere una mia visibilità, per pensare di poter essere accettata, per poter stare con i miei coetanei. Avevo ben capito che certe cose non erano per me, ma era ancora una sensazione confusa. In fin dei conti ero ancora una bambina.

Verso i 13 anni la mia condizione mi divenne più chiara, potei solo allora capire che forse avrei dovuto accontentarmi di una vita ai margini. Qualsiasi attività fisica mi vedeva emarginata e penalizzata. Se cercavo di partecipare in qualche modo, il risultato migliore era di sudare come nessun altro, di avere un fiatone impressionante e di arrivare sempre ultima. Nessuno in un gioco di squadra mi voleva con sé. Per quale motivo avrei dovuto sottopormi ad una tale tortura? Meglio, molto meglio, glissare, rinunciare, dire che non ero interessata e dedicare il mio tempo ad altro.  In questo modo il mio isolamento divenne sempre più grande rispetto ai compagni “normali”. Mi restava qualche sfigata come me, una cugina (forse costretta dai parenti) e la compagnia della parrocchia.

Avevo altri campi in cui eccellere lo studio e la musica. Anche nelle conversazioni con gli adulti ero molto apprezzata. Leggevo tanto, sembrava una attività in perfetta sintonia con il mio personaggio. A scuola ero brava, più di qualcuno mi chiedeva i compiti, ero la fonte di informazione privilegiata circa i compiti da fare e cosa studiare. Niente di più. Rari gli inviti per una festicciola, a me sembravano “rubati”, ottenuti per indulgenza verso la mia condizione.

Per la musica mi impegnavo moltissimo. Ero entusiasta, mi piaceva veramente sentire quei meravigliosi suoni uscire dal pianoforte e sapere che ero io che lo stavo producendo quella melodia.  Se dentro di me pensavo che potevo anche fregarmene del mio peso, del mio corpo orribile, soffrivo però per mia madre che stava male per me e per i rimproveri diretti e indiretti che riceveva. Ma che cavolo di colpa aveva lei. Ero io che mi ingozzavo, che non sapevo fermarmi e continuavo a mangiare. D’altra parte non capivo come mi potevo fermare dato che avevo sempre fame. Più mangiavo e più avevo fame. In certi momenti mi assaliva uno strano stato d’animo che non avrei potuto spiegare a nessuno, sentivo come un vuoto incolmabile dentro di me, una sensazione di noia assoluta, una completa mancanza di ogni suono. Ecco in quei momenti solo un bel pacco di biscotti mi riportava ad una realtà senza sofferenza, una sorta di anestesia saporita.

Aiutavo in casa mia madre nei lavori di tutti i giorni, lo facevo volentieri, mi sentivo più buona e mi sembrava così di pagare anche una sorta di penitenza. Anche da questo ne derivavano elogi e complimenti con la coda di invidia di parenti e amici dei miei. Tutto finto ai miei occhi. In fin dei conti non ero forse io la colpevole di tanta sofferenza dei miei genitori? Aiutarli era il minimo che potevo fare. La aiutavo in casa più che potevo, così non avevo neppure il bisogno di trovare altre attività. Anzi, avevo un’altra attività che consisteva nell’aiutare mia madre a contenere lo scatenato fratellino che arrivava a volte a sfinire mia madre, la quale mi chiedeva aiuto.

Quando, verso i miei 14 anni, si era discusso se trovare una baby sitter per il mio fratellino perché mia madre aveva deciso d’accordo con mio padre di ritornare al lavoro. Avevo capito che c’erano dei problemi che riguardavano i soldi. Mia madre riprendeva il lavoro per guadagnare qualcosa e la baby sitter costava troppo. I soldi era meglio risparmiarli ma mia madre avrebbe avuto troppo poco tempo per andare a riprenderlo alla fine della scuola. Ricordo la mia immediata decisione: “Posso badare io a Marco, posso andare a prenderlo all’uscita di scuola e il pomeriggio lo tengo con me”. Non serviva più una baby sitter, c’ero io. Tutti erano contenti perché così erano anche più sicuri che avrebbe fatto i compiti per bene.

Certo i miei impegni erano tanti ma mi sembrava giusto così, e poi ne  avevo grandi vantaggi. Non dovevo più trovare scuse per non andare dalle amiche, facevo quello che più piaceva, i miei genitori erano contenti. Mi sembrava di essere diventata in questo modo più grande. Certo il grasso restava  e cresceva.

Ogni tanto si riparlava della dieta ma solo di sfuggita. Sembrava un argomento tabù. Mia madre avrebbe voluto dimagrire ma aspettava il momento buono, ora aveva troppi impegni ma al tempo stesso io dovevo farla perché ero piccola e per me sarebbe stato facile. C’era una soluzione magica, una parola che poteva risolvere il tutto “basta un po’ di buona volontà”. Io ci pensavo spesso e non nego che qualche volta ho pensato di provarci ma era una scelta difficile con più rischi che vantaggi. Se riuscivo, non avrei comunque fatto nulla di eroico, ma avrei semplicemente applicato quella buona volontà che “dovevo” avere; se non ci riuscivo era l’ennesima prova del mio essere un’incapace, priva di ogni minima volontà e determinazione.

Intanto ero alle superiori, al liceo. Studiavo e tanto, andavo a scuola di piano, aiutavo in casa e badavo a quello scavezzacollo di mio fratello. Non bastava tutto questo per dare prova della mia volontà: io dovevo dimagrire. Ma possibile che nessuno capisse quanto ero stanca e stressata! Come avrei potuto rinunciare a ciò che più mi gratificava, ciò che in minima parte mi dava piacere? Forse dovevo solo e soltanto soffrire. Per questi motivi non potevo rischiare di dire ai miei che mi mettevo a dieta. Doveva essere una decisione segreta; certo loro sarebbero stati contenti di sentirmi dire “domani mi metto a dieta”, ma non potevo farlo. Da quel giorno avrebbero scrutato ogni mio gesto, ogni boccone, per capire c’era qualche etto in meno. Quando poi non avessero visto neppure un minimo accenno ad un calo di peso, mi avrebbero interrogata mostrandomi tutta la loro delusione. Allora era meglio provarci in silenzio, giocarsi da sola questa chance. Per una settimana riuscivo a mangiare meno almeno davanti ai loro occhi, ma il pomeriggio, quando mi trovavo sola con mio fratello, il pensiero di ciò che c’era in dispensa mi angustiava, mi tormentava dentro e alla fine cedevo. Avrei riprovato un’altra volta, magari il giorno dopo. Piano piano avevo sviluppato il pensiero magico che un giorno o l’altro sarei riuscita a mangiare meno e a non avere più interesse per il cibo. Ecco la vera soluzione “non avere più interesse per il cibo”. Non bastava la dieta, cosa peraltro impossibile, dovevo più semplicemente non avere più alcun interesse per il cibo. Dovevo imparare a digiunare. Dovevo solo convincermi che gli spaghetti al ragù, la cotoletta, il prosciutto, i biscotti frollini, le brioches, le pastine, la cioccolata e qualche altra decina di cose buone non mi sarebbero più piaciute e anche affamata avrei saputo rinunciare per un bel piatto di insalata. Sarei finalmente diventata un’altra persona. Magra, amata, ricercata, con mia madre orgogliosa di me. La triste realtà era invece che le cose peggioravano anche a casa, dove sino ad un anno prima stavo bene.

A tutto questo si era aggiunto un dolore ulteriore. A scuola le mie compagne erano tutte più magre di me. Tutte però parlavano di dieta e della voglia, o meglio necessità, di dimagrire. Solo così aveva un senso mettere le maglie, i jeans e gli altri vestiti alla moda. Quante lacrime ho versato durante quel primo anno delle superiori, quanto dolore tenuto segretamente dentro di me. Unica consolazione era pensare ai soldi che facevo risparmiare ai miei.

Mio fratello era sempre più ribelle, scanzonato, allegro e menefreghista. Cercavo di farlo studiare ma non ci riuscivo. Lui poi mi prendeva in giro, pesantemente. Quando ho provato a spiegare a mia madre come mi trattava mio fratello ho ricevuto una dose ulteriore di rimproveri. Io ero la più grande e i miei si aspettavano che aiutassi di più, che facessi fare i compiti al più piccolo. Ero diventata un fallimento su tutti i fronti, almeno questo era il mio stato d’animo.

A 15 anni finalmente si va dal dietologo, un dietologo vero e famoso. La sentenza fu pesante. È affetta da una obesità grave. Peso 112kg per 162cm. Eravamo agli sgoccioli, se non dimagrivo chissà quali acciacchi mi sarebbero piombati addosso. Forse era già tardi. Dovevano pensarci prima. Un fallimento completo, ma ora almeno c’era una speranza. Abbiamo fatto alcuni esami con la speranza che avessi una malattia, qualche ormone che andava per conto suo (questo ci avrebbe reso tutti innocenti). Ma mai una volta che mi sia andata dritta: gli esami erano perfetti, ero io l’unica imperfetta (in compagnia di mia madre che al medico aveva pur detto: dottore mi creda ho provato in tutti i modi ma non c’è mai stato nulla da fare, mangiare sembrava fosse l’unico suo interesse! Se le toglievo i biscotti mi faceva delle storie incredibili).

Dopo una decina di giorni, fati gli esami e accertamenti vari, mia madre torna a casa con la dieta scritta e specificata nei particolari. Decisi di metterci tutto il mio impegno. Lancia in resta e via. Mai più biscotti, merendine, panini al pomeriggio, gelati a go go. Niente di tutte quelle schifezze che “fanno ingrassare”. Iniziò il rito della pesata dal medico. Il pomeriggio mia madre mi aveva poi coinvolta in una passeggiata con lei (così ci aiutiamo a dimagrire perché sai anche a mamma serve calare un po’ di kg). Le rinunce erano tante, niente gelato, l’obbligo di una colazione equilibrata (che nessuno faceva a casa mia), una passeggiata tutti i santi giorni, nessun dolcetto. Al compleanno di mio fratello mi hanno dato una mignon “se la merita, è così brava”. Mia madre era stanca della passeggiata, aveva così tanto da lavorare in ufficio e a casa. Io avevo mille impegni e trovare il tempo per tutto, passeggiata compresa, sembrava ogni giorno più difficile. Per non dire poi che la pelle delle cosce si era tutta arrossata. Il gioco (o meglio, la fatica) valeva però la candela. Dopo 2 mesi era dimagrita di 5kg. Erano tutti contenti ma avevo capito che ci sarebbe voluto un anno continuando così. Provai a mangiare ancora meno ma la pancia e la testa mi mandavano dei segnali inequivocabili: fame voglia, appetito, malessere. Il pensiero correva sempre al cibo buono che sapevo esserci da qualche parte se non della mia casa al negozio di generi alimentari. Quando vedevo un film le scene di cibo erano le più interessanti, nelle riviste mi soffermavo sulla pubblicità di qualche leccornia, consultavo libri si ricette, mi fermavo al supermarket a guardare tutto quel ben di dio che mi era stato proibito negli ultimi tre mesi. Almeno però avevo buona volontà. La mia buona volontà era molto aiutata dai sensi di colpa. Cosa avrebbero pensato i miei genitori, cosa avrebbe detto la nonna e la zia se anche questa volta avessi fallito. Al controllo dal medico dopo il quarto mese il risultato era favoloso: dimagrita di 8kg, massa magra aumentata di 2kg, come fossi dimagrita 10kg. Una gioia ma bisognava continuare. In verità quando mi guardavo allo specchio non vedevo differenza, anzi mi sentivo ancora più grassa, sembrava quasi che allo specchio e nel mettere i vestiti il mio corpo si dilatasse. Al sesto mese altri due chili in meno, bene ma con una punta di delusione. Io e mia madre ci aspettavamo almeno il doppio, tanto erano stati duri gli sforzi fatti.

Improvvisa avvenne la catastrofe. Dopo un altro mese, durante il quale mi sembrava di avere fatto tutto per bene, come sempre la bilancia aveva sentenziato: peso stabile, nessun calo. Interrogativi a più non posso. Mia madre giurava che aveva fatto tutto come concordato. Il medico, era chiaro, aveva individuato il responsabile e lo indicò con alcune semplici domande “hai forse mangiato qualche cosa a scuola, magari ha piluccato qualcosa il pomeriggio a casa, ti comperi dei dolcetti? Perché non ci dici la verità?” domande che erano dei veri e propri colpi bassi. Mi sono sentita sfiduciata da mia madre e dal medico, dentro mi sentivo come un martire il cui martirio non era stato visto e apprezzato da nessuno. Ero presa tra due sentimenti opposti: gliela faccio vedere io a quello stronzo di medico che non mi crede! E, all’opposto, che vadano tutti al diavolo, ora mi mangio quattro pacchetti di Kit Kat. A casa, discussione anche con mio padre, deluso, sul cosa fare e come rimediare. Come non bastasse il medico costava caro. Il giorno seguente al pomeriggio, dopo una lite con mio fratello, mi sono finalmente liberata e mi sono mangiata un pacco di schiacciatine al basilico. Voracemente, velocemente, anesteticamente. Subito dopo era pervasa da un  misto di gratificazione, benessere, senso di colpa, dolore. E pensare che mi erano sempre piaciute le schiacciatine… ecco! erano riusciti a farmele detestare! E pensare che erano anche il cibo preferito dalla mamma. Come rimediare? Non vedevo soluzioni. Forse avrei potuto vomitare come avevo sentire che facevano alcune mie compagne, ma non mi sentivo la forza necessaria. Promessa: non ci casco mai più. Ma oramai era una marea montante. Il giorno dopo a scuola mi sono fatta a merenda un panino con il salame. Avevo una nuova soluzione. Non dire nulla a nessuno e nascondere il mal fatto. Dal medico, dissi a mia madre, non volevo più andare: costava un sacco di soldi e non ci aiutava un granché. Non mi volevo neppure più pesare. Che stessero tranquilli, ci pensavo io al mio grasso. Mi madre acconsentì. In fin dei conti anche lei aveva avuto i suoi rimproveri. Era una alleanza non esplicita ma che andava bene a tutta la famiglia. Meglio chiudere quella esperienza.

Per un po’ non si parlò più di dieta e del mio peso. A qualche timida domanda la mia risposta era risolutiva “va tutto bene”.

Il mio peso intanto cresceva. Qualche volta i miei timidamente mi dicevano “quanto pesi? Mi sembri aumentata”. Io negavo, ma no, sembra, sono sempre uguale.. Era una pietosa bugia. La loro attenzione nei riguardi della mia dieta mi angosciava e mi umiliava terribilmente Avevo sperimentato una cosa che poi ho scoperto accade a tutti. Fare la dieta riesce all’inizio, per qualche mese è possibile calare di peso. In seguito il calo però è sempre più difficile, se proprio ti impegni resti a peso stabile, ma poi c’è la recidiva. Sì, recidiva nel senso che non si riesce più a rinunciare alle cose buone, lo stile di vita inteso come attività fisica non si modifica. Tutto resta come  prima con la differenza che non fai altro che pensare a tutto il cibo buono a cui ha rinunciato e, alla fine, recuperi tutto il cibo a cui hai rinunciato. Hai perso 4 kg e dopo alcuni mesi te ne ritrovi 6 in più! A 15 anni le prese in giro sono meno frequenti, non sono così cattive e perfide come alle medie. I compagni non dicono nulla, qualche ragazza ti è amica per la scuola ma non per altro. Per ogni altro aspetto della vita sociale di un adolescente vieni trattato come un paria. La tua vita sociale è ridotta al minimo e non fai nulla per cambiare, anzi quella vita ti protegge. Chi ce l’avrebbe mai il coraggio di presentarsi ad una festa dove comunque non conoscerei nessuno? Con chi dovrei parlare? Dovrei stare in un angolo mimetizzandomi con la tappezzeria? È buffo che una persona con un corpo ingombrante come il mio debba passare la vita a nascondersi, a cercare di diventare invisibile, perché è chiaro che è una lotta persa in partenza. Sono troppo grassa per nascondermi, sono “troppa” per sparire. E pensare che sarebbe il mio più grande desiderio. Per capire come sei basta osservare come ti guardano tutti. Certo, vorresti anche tu un amico, un ragazzo, avere una storia.

Ma come si fa? Meglio lasciar perdere e non farsi illusioni.

I sensi di colpa divengono giganteschi, le ansie, le paure, il sentirsi una persona sbagliata ti hanno oramai minata nell’intimo. Non hai nessuna stima di te, ogni sguardo degli altri penetra nel tuo corpo e diventa un giudizio inesorabile: “fai schifo”, “vergognati!”. Eppure, mi dico, sono brava a scuola, non creo problemi… possibile che tutti non facciano che accorgersi sempre e soltanto del mio peso? Uno scrittore ha detto che lo sguardo degli altri è lo specchio migliore, il più preciso e insieme il più crudele. Non so se sia vero, ma so che a volte io leggo esattamente quello che si nasconde nello sguardo di alcune persone quando mi vedono: pena. Speranza di non essere mai come me o che non gli tocchino in sorte figli come me. Scherno, schifo. Penso che molta gente potrebbe riservare persino ad un criminale occhiate più clementi.

Anche uno sconosciuto in autobus mi ha detto “perché non provi con ….., guarda che funziona”, come se una persona come me che pesa 100kg avesse bisogno di una informazione. Ah sì hai ragione, mi era sfuggita, grazie per avermi detto come si fa a dare una sistematina alla mia vita da sfigata. Mancavi solo tu per illuminarmi, ora so come si fa!!

Ho una corazza, ho sviluppato un sistema difensivo potente. Ignoro il mio problema, cerco di non guardare mai gli altri, penso solo al mio lavoro. Eseguo quello che devo, sorrido sempre, mi va bene tutto. Non posso permettermi critiche, non posso aprire un varco alle osservazioni degli altri, potrebbero giungermi ferite gravi che non so se riuscirei a tollerare. Ho imparato a mascherare le mie emozioni, non provo nulla. Il cibo è la mia anestesia. È il migliore amico che non ho, è il fidanzato che forse non troverò mai. Il cibo mi salva dopo avermi messa in trappola. Il cibo è il mio nemico e insieme l’unico compagno che io abbia mai avuto.

La mia vita alimentare ha una sua regolarità. Quando sono sola vengo presa, a volte, non sempre, da momenti di ansia. Sento un vuoto interiore, solitudine, tristezza a cui rispondo efficacemente con due pizzette e un succo. Altre volte il rimedio è più dolce e più distruttivo: non dà spazio a scusanti. Mi ingoio anche 6-8 pastine. Squisite e velenose, tanto è forte poi il mal di stomaco e la nausea. Quando poi si va dai nonni si mangia, la nonna insiste, c’è la zia che mi rimprovera, rimprovera tutti; la nonna mi difende e dice che mangiare con gusto non ha mai fatto male a nessuno. Quando invece vengono degli amici a casa mia c’è ogni ben di dio. Come resistere? Impossibile! La presenza di amici di famiglia impedisce ogni rimprovero e allora mangio tutto quello che voglio. Mi restano solo le giornate in cui siamo a casa io e la mia famiglia, a pasto riesco anche a dare l’idea di una alimentazione quasi normale.

Ultimamente mia madre è diventata cattiva, non mi capisce, si arrabbia se non mangio o se non faccio quello che lei ha deciso. Grassa sì ma ubbidiente, servizievole. Così credo che mia madre mi voglia, niente di più. Il suo amore per Marco invece cresce sempre di più, anche se lui continua a combinare guai e a non impegnarsi nello studio. In compenso sta diventando un piccolo campione di nuoto, sembra che l’anno prossimo possa entrare a far parte di una squadra a livello agonistico. Una volta ho sentito mia madre parlare al telefono con mia zia e dirle che avrebbe voluto dei figli con il mio carattere accomodante e la mia attitudine per gli studi e con la struttura fisica di Marco. Ormai sono abituata a questo genere di osservazioni, e la verità è che anch’io a volte invidio profondamente mio fratello, e ciò non fa che causarmi ulteriori sensi di colpa. Mi sento cattiva, oltre che brutta e grassa.

Mio padre è più tranquillo ma mi sa che qualcosa è cambiato in casa. Forse è cambiato lui, credo sia stanco e in crisi con mamma. Non credo che tra loro ci sia più quel sentimento che li ha fatti sposare. A volte mi capita di pensare che sia tutta e solo colpa mia. Avrei voluto essere una persona agile e spensierata come mio fratello. Invece la mia pesantezza non è solo un referto medico legato all’obesità, è proprio la mia natura più vera. È la mia natura e insieme è il mio destino: essere pesante, essere un peso, è questo il ritornello che descrive tutta la mia vita. Mi sento un peso per i miei, per me stessa. Ora ricordo quasi con rimpianto il tempo delle diete, ma non certo perché fosse un periodo sereno, o perché abbia mai portato cambiamenti effettivi. Lo rimpiango perché mi teneva vicina a mia madre. Era il nostro progetto, la nostra comune lotta verso un nemico insidioso. La nostra fame ci ha unite, la nostra crociata contro la pesantezza dei nostri corpi ha fatto di noi due alleate. Ma ora capisco con immenso dolore che la nostra fame ci ha divise, che il tempo delle diete è stato un tempo illusorio e pericoloso, che non ha fatto altro che rendere più difficili le cose, come se nutrirsi di illusioni e menzogne potesse davvero salvarci. Correre con mia madre al parco, conteggiare con minuzia le calorie dei cibi insieme al lei è un ricordo dolce ma, nello stesso tempo, inquietante. Ora ho capito che se siamo divise è perché siamo due perdenti, siamo entrambe sconfitte da una lotta che mi fa pensare con tenerezza e disperazione al personaggio letterario che in assoluto amo di più, alla sua lotta contro i mulini a vento. I libri mi hanno salvata, ma non perché la cultura sia la medicina a tutti i mali; la storia, la vita ci insegna tutti i giorni che non è così. Se mi hanno salvata è banalmente perché mi hanno permesso di vivere altre vite. Di correre, di amare, di trasformarmi. Il tempo delle diete mi ha fatto capire che il mio corpo non sarebbe mai cambiato. Mai. Nel corso degli anni mi sono stati proposti metodi di dimagrimento alternativi, interventi chirurgici, terapie di gruppo. La tentazione di accettare, di credere all’efficacia di tali metodi, è stata talvolta fortissima. Se non ho mai accettato è stato per la paura di fare di nuovo l’esperienza della presa di coscienza che, magari non subito, magari dopo un po’, il grasso sarebbe tornato, il peso sarebbe aumentato ancora. Non voglio permettere che questo accada, non voglio. Voglio risparmiare a me stessa questa ennesima umiliazione. Gli sguardi della gente per strada sono una prova più che sufficiente da superare ogni giorno, ogni minuto. L’imbarazzante fatica che ho nel muovermi, anche. E pensare che io mi sento l’animo di una gazzella, di un colibrì! Ho un’anima leggera. Ciò che è pesante è tutto il resto: il corpo, il mio percorso, la mia lotta fallita, insomma, la mia storia. Una storia obesa. Quando mi guardo allo specchio io non vedo la dismisura del mio corpo. Sì certo, la vedo, ma quello che io vedo veramente è soprattutto il mio viso esausto. Sono stanca. È troppo faticoso. È troppo crudele. È inutile. Ora ho incontrato un medico, dicono sia molto bravo, mi ha fatto una buona impressione. Ho chiesto aiuto, che mi aiuti a stare meglio, semplicemente meglio con il mio corpo. I miei sono più tranquilli e forse un po’ più rassegnati. Io sono più lucida e più disillusa, tanti mi dicono che sembro molto più grande della mia età perché sono molto matura. Credo sia così, sono stanca perché ho dovuto crescere più in fretta.

Vado avanti, perché questa vita è la mia, questa è la mia storia, il mio corpo, e anche se a volte mi sembra che diventi ogni giorno più difficile io ci provo, ad andare avanti, imparo a vivere nella dismisura di un corpo pesante, movendomi con lentezza tra le cose della vita e tra gli sguardi degli altri.

Quando ci rendiamo conto è già tardi.
Non riusciamo a capire.
Vediamo solo che non mangia e perde peso.
A volte sembra apatica e abulica, completamente estranea a tutto ciò che la circonda, e continuiamo a non capire.
Personalmente sono quasi certo di possedere cognizioni, status culturale e forze fisiche sufficienti per far fronte alla situazione, ma ogni volta che tento di intervenire vado a sbattere contro una realtà sconosciuta che non mi aspettavo.
Poi, al manifestarsi delle prime alterazioni comportamentali più serie, vado nel panico.
“Certe cose non possono succedere in una famiglia normale; abbiamo fatto sempre tutto assieme, siamo sempre stati calmi, tranquilli e mai litigiosi. Non siamo proprio come quelli del mulino bianco, perché non abitiamo in campagna, ma non abbiamo mai avuto problemi e siamo sempre andati tutti d’amore e d’accordo! Allora, quelli che sono divorziati? Oppure quelle famiglie dove la madre è alcolizzata ed il padre un desaparecido?”
Mia moglie, proprio perché moglie, madre e donna, e con tutte le caratteristiche di sensibilità proprie della specie, è già arrivata a focalizzare il problema.
Arrivano così i primi calci sotto il tavolo ed improvvise occhiate di rimprovero.
Sono sempre più perso e confuso.
Cerco di chiarirmi le idee leggendo e frequentando incontri per genitori persi come me, ma la confusione aumenta e non capisco più niente.
Mi guardo dentro chiedendomi dove ho sbagliato, ma non trovo risposte.
Intanto lei diventa la protagonista assoluta di ogni momento della mia esistenza; ogni cosa che faccio, ogni pensiero, ogni immagine, mi riporta a lei.
Ho la testa piena di lei, ma nello stesso tempo mi sento impotente, troppo confuso per poterle essere utile.
Col senso di impotenza e la concreta incapacità di migliorare le cose, anche l’autostima se ne va al tal paese.

Riesco ad imparare, ma molto lentamente, a contare fino a dieci prima di aprire bocca, a non parlare più di cibo e di mangiare in genere, a “non farci caso”, a “lasciarla fare”; sono costretto ad assumere un autocontrollo che non fa parte del mio carattere e piano piano, giorno dopo giorno, arrivo a non riconoscermi. Non mi sento più me stesso.
Non devo parlare, non devo vedere, non devo sentire!
Per fortuna sono libero di scrivere e posso raccogliere per iscritto qualche considerazione spicciola, qualche pensiero, sulla situazione che sto vivendo.
A sera sono così “sereno” che, coricandomi, mi auguro di rivederla anche il mattino seguente: si va a dormire nella speranza di rivederla viva anche il giorno dopo!
Tutto il mondo ruota attorno a lei, di giorno, quando sono sveglio, e di notte, perché spesso non dormo.

E man mano che la situazione peggiora per lei, peggiora di riflesso anche per tutti quelli che le stanno attorno.
Mi sembra di avere a che fare con un matto che ragiona, perché ad una condizione di buio totale si alternano inattesi lampi di lucidità disarmante. Ma dato che lei non è più se stessa, i nostri comportamenti nei suoi riguardi non possono più essere quelli di prima; disponibilità, gentilezza, fermezza, severità non hanno senso per un soggetto che non vive la realtà!
Questa “fuga dal reale” pian piano coinvolge l’intera famiglia.
Come lei giunge ad isolarsi dal mondo esterno, indifferente a tutti e a tutto, così noi, coinvolti con anima e corpo nello sforzo di portarle aiuto e spesso afflitti da inutili sensi di colpa, rischiamo la medesima fine.
Non c’è più tempo per i parenti, che non sono in grado di capire; non c’è più tempo per amici e conoscenti, che ancor di più non sono in grado di capire; non c’è più tempo per noi stessi che crediamo di capire tutto, ma in ogni caso non capiamo niente!
L’altra figlia, povera, diventa una comparsa costretta a subire, suo malgrado, gli umori che la situazione comporta.
Le giornate, le serate, le domeniche, le ferie vengono subordinate “al problema”, ma nulla vale a risolverlo.
A noi sembra di essere essenziali, fondamentali; riteniamo la nostra “amorosa presenza” la chiave di volta per la risoluzione della sua crisi; non ci rendiamo conto invece che così stiamo cadendo anche noi tutti in piena crisi.
Attorno a lei vorremmo un alone di serenità assoluta, invece il clima famigliare è sempre più avvolto da una tensione pesante ed incombente che impedisce un dialogo aperto, costruttivo.

Lo sconquasso che travolge la famiglia porta anche allo sconvolgimento della coppia che finisce col non esistere più come tale. Ruoli, regole, abitudini e certezze che si ritenevano ferme, incrollabili, vengono spazzate via o, nella migliore delle ipotesi, rimesse in discussione.
E se è vero che amore e sesso partono dal cuore e dal cervello, in simili situazioni non c’è più spazio né per l’uno, né per l’altro. Cuore e cervello sono sovraffollati, impegnati in occupazioni e pensieri che prendono il sopravvento su tutto il resto…….
Il rapporto di coppia viene messo a durissima prova ed anche le situazioni più stabili e consolidate faticano a reggersi.
Tutti gli equilibri vengono meno.
Per non soccombere agli eventi e per una forma di autodifesa ci rifugiamo nel nostro “sano egoismo”, perdendo però di vista l’obiettivo dell’“uniti si vince”.
Sarebbe invece importante essere solidali ed univoci nei comportamenti e sereni nello spirito, nonostante tutto, per poter offrire un aiuto, in caso di aperta richiesta. Senza un’adeguata corrispondenza di intenti con il partner, si rischia di andare chi da una parte e chi dall’altra, stravolgendo i normali tempi e momenti vissuti in comune.
Ma i fenomeni depressivi prendono il sopravvento.
Le mamme, tendenzialmente più inclini a questa patologia, in qualche caso complicata da problemi ormonali, ricorrono all’impiego di adeguati farmaci; i babbi, invece, ugualmente inclini e altrettanto vacillanti sul piano umorale, ma meno propensi a riconoscerlo, si tuffano in altre terapie, non farmacologiche, ma altrettanto efficaci e tutte riconducibili a qualsiasi tipo di iperattività compensativa.
Se il conflitto ci travolge, la depressione ci vince, la speranza ci abbandona non saremo mai sufficientemente lucidi ed obbiettivi per poter intervenire in caso di bisogno, con il rischio di contribuire involontariamente anche alla cronicizzazione della malattia.
Ma i genitori non possono permettersi il lusso di lasciarsi travolgere dalle vicende di casa; devono imparare ad incassare anche colpi bassi e a reagire come materassi, assorbendo anche le provocazioni più spudorate senza reagire.
Ed è facile a dirsi.
Sotto il profilo pratico la cosa è estremamente difficile da attuare; la soluzione da noi sperimentata è stata quella di abbandonare, quasi subito, il tentativo di autogestione del problema e di affidarsi a personale specializzato.
Se una figlia deve effettuare il proprio percorso per riprendere pieno contatto con la realtà, anche i genitori devono seguire un loro cammino, quasi parallelo, per poter “seguire” passo dopo passo i diversi aspetti evolutivi del problema.
La terapia famigliare e la terapia di coppia costituiscono un supporto ed un aiuto basilare per chi si trova a dover affrontare un disturbo alimentare.
Di malattia si tratta e come tale deve essere affrontata ed essendo una patologia a coinvolgimento psichico, solo da psicologi e psichiatri può venir trattata.
Non e possibile parlare di “pudore”, nell’affrontare questo tema, ma solo di paura di guardare in faccia una scomoda realtà.
Da queste situazioni è quasi impossibile uscirne senza un aiuto, ma sappiamo anche quanto sia difficile rassegnarsi ed abbassarsi a chiedere aiuto.
E l’egoismo, il menefreghismo possono portare a meccanismi di difesa perversi che ci aiutano solo a non vedere e a minimizzare.
Quando si viene coinvolti nel profondo, la sola via per riemergere è quella di affidarsi singolarmente, in coppia o come nucleo famigliare, a chi ha le competenze e le capacità per riportarci a galla.
Certo tutto questo, se arriva a risolversi definitivamente, non passa senza lasciare segni.
Ci si ritrova tutti, anche per effetto del tempo che scorre, profondamente cambiati.
Certo più vecchi, visto che a volte le cose si trascinano piuttosto a lungo, ma anche diversi nel modo di vedere e di affrontare la vita e nello stesso stile condurre la vita.
Anche questo tipo di esperienza, pur con tutte le sofferenze che è in grado di produrre, può lasciare qualche segno positivo. Ci si ritrova mutati nel carattere che viene a subire un generale rafforzamento, mentre nello stesso tempo vengono smussati gli spigoli più acuti. Arriviamo, infatti, a scoprire in noi doti che forse non sapevamo proprio di possedere e oltre a pazienza, costanza, caparbietà, si può anche giungere a smettere di fumare, a parlare alla radio, ad affrontare un “pubblico” di sconosciuti, a tollerare persino un cane alla propria corte casalinga. In sintesi si finisce col diventare più tolleranti nei confronti di tutto ciò che non richiede una giustificata rigidità.
E poi, sull’onda dei lenti e progressivi successi, torniamo a riacquistare serenità e fiducia nella vita, a riappropriarci degli spazi prima persi, a ricreare e scoprire nuove attività.
Per trovare poi in noi stessi uno stimolo a non mollare, non dobbiamo mai dimenticare, quando ci troviamo in piena difficoltà, che c’è comunque chi sta sempre peggio di noi che al peggio non c’è mai limite. E’ una conclusione magra e semplicistica, ma profondamente reale.

Lettera aperta ai genitori che partecipano ai gruppi di auto aiuto guidato
E’ già passato un anno da quando vi ho conosciuti e sento prepotente il bisogno di ringraziarvi per quello che mi avete dato.
Ho dovuto prendere atto dell’anoressia di mia figlia e come tutti ho dovuto affrontare quei tremendi problemi connessi a questa patologia, problemi che mi spaventavano perché non ero preparata alla loro complessità.
Credevo che la malattia comprendesse solamente il rifiuto più o meno totale del cibo, cosa già grave ma niente mi aveva preparata alla sofferenza e al tormento psicologico de mia figlia. La ragazza solare, positiva e gioiosa non esisteva più ed io non sapevo come aiutarla, anzi tutti i miei tentativi parevano sortire l’effetto contrario.
Fortunatamente la dottoressa Costella mi ha parlato di voi ed io ho deciso, per amore di mia figlia di conoscervi. Non è stata una decisione facile ma dovevo aiutare mia figlia in ogni modo. Avevo timore di incontrarvi, timore di trovarmi davanti a giudici pronti a sottolineare tutti i miei fallimenti di madre, forse perche io mi ero già condannata sentendomi responsabile dei suoi problemi.
Voi invece mi avete accolto tutti con un sorriso aperto e sincero e mi avete tranquillizzata e sollevata spiegandomi che non dovevo sentirmi responsabile di quello che lei stava passando.
Ho sentito il vostro affetto e la vostra comprensione e le parole che in un primo momento faticavano a uscire sono fluite senza fatica perché voi parlavate la mia stessa lingua, sapevate esattamente cosa volevo dire.
E così, riunione dopo riunione mi avete insegnato a sperare, sperare sempre anche quando precipiti nella disperazione più nera.
Ho imparato che molti di voi hanno avuto figli in condizione tanto peggiori della mia e che nonostante tutto ne sono uscite. Ho messo in atto i vostri suggerimenti per aiutare mia figlia durante le crisi più gravi, con buoni risultati. Mi sono quindi trovata ad aspettare con ansia le nostre riunioni per scaricare le mie tensioni e finalmente lasciarmi andare appoggiandomi a voi, voi siete i miei terapisti e vi ringrazio per essere come siete.
Questa mia lettera, oltre che a voi, vorrei dedicarla anche a tutti i genitori che hanno figli con disturbi alimentari per dire loro di venirci a trovare. Non abbiamo una formula magica capace di risolvere i problemi dei nostri ragazzi, vogliamo solo aiutare, con la nostra comprensione e la nostra esperienza, i genitori e in generale le famiglie che si trovano a convivere con ragazzi che hanno queste patologie. Cerchiamo soprattutto di dare un aiuto per conoscere meglio i molteplici problemi e aspetti della malattia dei nostri figli e insieme impariamo a convivere con tutto questo sforzandoci di far vivere alla famiglia una vita più normale e serena possibile.
Alle nostre riunioni possiamo sempre contare sulla presenza della dottoressa Costella che, collaborando anche con il Centro Disturbi Alimentari di S. Vito al Tagliamento, è la persona più indicata a darci supporto, consigli e suggerimenti. .Invito quindi, chiunque abbia i nostri problemi a venirci a trovare perché aiutando noi stessi potremo aiutare meglio i nostri figli.
Una mamma

“L’inferno dei viventi non è quello che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Italo Calvino)

STORIA della MIA ANORESSIA ovvero VIAGGIO VERSO LA SOPRAVVIVENZA

Bruciature di sigarette sulle gambe, cicatrici di tagli fatti con rasoio o taglierino.
Questi solo alcuni dei segni che mi sono rimasti addosso di un periodo della mia vita caratterizzato da una malattia che ancora faccio fatica a chiamare con il suo nome.
Il mio corpo ora, a parte piccoli cerchi e righe sulla pelle, sta bene. O per meglio dire, ha smesso di squarciare il silenzio con il suo grido sordo.
Anni fa, però, delusa, impaurita e straziata dalle risa di scherno delle persone, mi sono avviata in una ribellione verso quella società nella quale sembrava non ci fosse posto per me.

I digiuni…le dita in gola per vomitare, le ossa del mio scheletro che a poco a poco diventavano sempre più visibili…Queste le gomitate che mi hanno permesso di farmi strada in un mondo troppo crudele per chi, come me, vive di sentimenti.

Una storia d’amore finita, un’amica che non capisce le mie lacrime: solitaria ho cominciato a non sentire più la fame. Accalappiata dal vuoto ho cominciato a vivere di esso. Ed inizia…

4settembre1998
“Mi faccio schifo e non ho voglia di uscire. Mi sono tagliata i capelli e mi manca il periodo in cui li avevo lunghi. Fuori piove e a me viene da vomitare. Oggi peso 46 Kg e tra dieci giorni ricomincia la scuola…”
Queste le uniche parole che avevo a disposizione per descrivere il male che mi dilaniava: “Mi faccio schifo e non ho voglia di uscire…”. Ma dentro di me, la morte.

Morte che chissà da quanto tempo stava bussando alla porta della mia anima. Ripercorrendo gli anni passati della mia breve vita, trovo solo alcuni ricordi da poter collegare alla mia distruzione interiore.
Affiora nei miei pensieri un episodio risalente alle elementari, una presa in giro. Per la mia magrezza. Sara che mi dice: “Dio mio! Copriti le braccia per piacere!” Io: “Perché?” “Sono troppo magre! Mi fanno impressione!”
Indossavo una maglietta rosa, quasi fucsia, con disegnati dei pesci. Al momento, in apparenza, tali battute non hanno suscitato in me alcuna reazione; oggi però, le medesime parole, le ritrovo nei miei ricordi.
Andando a scavare ancora nella scatola delle mie memorie, trovo anche un enorme macigno. Una pietra gigante sulla quale sono scritte moltissime parole, tutte uguali. “Hai un sacco di brufoli” “Usa topexan” “Hai un sacco di brufoli” “Usa topexan”… Impotente di fronte alla situazione che con diversi dermatologi tentavo di risolvere, mi sono trovata a dover affrontare un disagio reso insostenibile dalla cattiveria dei miei compagni. Le ore passate insieme a loro venivano cancellate da poche e feroci parole che nella mia vita di ogni giorno assumevano la sembianza di mostro. La mattina, prima di andare a scuola, la paura di sentirmi criticata e accusata per una cosa al di fuori del mio controllo e della mia volontà. Nonostante il parere di diversi dermatologi, la mia pelle vomitava brufoli in continuazione. Io, oltre ad un trucco precoce, nulla potevo per far si che gli altri evidenziassero di me diverse caratteristiche. Anche se in quel periodo io ero abbastanza trascinatrice all’interno della mia cerchia di amici, le loro parole, incentrate su un aspetto insignificante/una banalità rispetto al valore della mia persona, mi hanno sminuita…fino all’osso…
Ancora, nella mia mente, trova spazio il ricordo della malattia di mamma.
Ero in seconda media quando tra le pareti di casa hanno iniziato a materializzarsi parole attorno al tumore al seno che l’aveva attaccata. Ogni giorno paura, apprensione e instabilità circondavano me e la mia famiglia. Il terrore di un male sconosciuto ed imprevedibile mi ha portata ad ignorare. Chiusi gli occhi davanti ad una realtà troppo dolorosa da sostenere, continuavo a riversare tutte le mie energie nella vita sociale, negando tutto quanto mi stava travolgendo in casa.
Poi, da un momento all’altro, la situazione sembra volgere in positivo.
Il tumore sconfitto, ma nell’ombra la depressione avanza espandendosi sopra il dolore tracciato dal cancro.
Papà che chiede a mia sorella e a me di prenderci cura della mamma una volta fuori dall’ospedale.
Detto fatto. Da tredicenne coscienziosa cerco di fare del mio meglio. Nelle poche ore che trascorro a casa dopo lunghi momenti in spensierata compagnia, mi immergo in compiti troppo grandi da sostenere. Ligia al mio dovere, cerco di non destare preoccupazioni inutili, e do il massimo per regalare soddisfazioni anche nelle piccole cose. Poco per volta mi assumo il ruolo da donna di famiglia aiutando nelle faccende di casa, e obbedendo ad ogni richiesta.

Solitaria nella mia camera, accucciata in un angolo tra muro ed armadio, fuggivo dalla realtà viaggiando nelle pagine di numerosi libri…

Dall’esterno attacchi di ogni sorta hanno continuato il loro percorso. Io, logorata e sgualcita. Dentro e fuori. Sempre più fragile mi sono aggrappata a chi non ha saputo capirmi ed amarmi per quella che ero. Io ora odiata da me stessa e non accettata dagli altri. In ogni dove conferma di un mondo distratto nel quale io non sapevo camminare.
Bisognosa di un qualsivoglia appoggio, ho accolto accanto a me un ragazzo crudele verso il mondo come coloro che mi stavano uccidendo con le loro lingue taglienti. Contro tutti i miei principi di accettazione verso le diversità, Dario mostrava invece apertamente la sua posizione razzista.
Io tutt’oggi mi stupisco al solo pensare di averlo voluto vicino a me.
La durezza delle sue posizioni intolleranti e la mia fragilità diffusa, mi hanno vista succube nello scegliere di allontanarmi da care persone che in realtà mi davano il giusto valore senza chiedere nulla in cambio.
Incapace di azione.
Solo ora penso che, tanta cattiveria attorno a me, non abbia fatto altro che indebolirmi.
Priva di forze mentali e fisiche.
Frustrata…

20febbraio2001
“non riesco a capire perché mi voglio così male e perché da così tanto tempo.”

…scrivendo sul mio diario cerco di capire…

31maggio2001
“Non so cosa ho da dire, ma mi sento insoddisfatta. Ho bisogno di sfogarmi anche se non ho parole da pronunciare. MI SENTO COSTRUITA, MI SENTO LEGATA”

Cerco di guardarmi dentro, di capire cosa sta dicendo il mio corpo scheletrico. Il mondo però mi acceca…

12agosto2001
“CAZZO 42,5. DEVO FARE – 3,5
devo smettere di mangiare”

Incerta propendo per cercare di cavarmela con le mie sole forze. Ma purtroppo non so fare altro che riversarle contro di me.

20ottobre2001
“FINE di una storia.
E DA ADESSO FINE DEL FARSI MALE
E VIA AL CONTROLLO.
A pranzo BRODO+MELA
A CENA brodo+mela”

“LA FAME NON ESISTE
LA FAME NON E’ REALTA’
MANGIARE E’ UNA PERDITA DI TEMPO. SE HAI FAME FAI DUE PASSI. FAI 50 FLESSIONI. NON MANGIARE. POI STAI MALE E TI TRASCURI. 38. 38, PRIMA 40. POI 38: NON CI VUOLE MOLTO. CE LA DEVI FARE. SI, DEVI FARCELA E CE LA FARAI.”

21ottobre2001
“MI ODIO DA MORIRE. E CI PENSO QUANDO MANGIO, CHE SE POTESSI MI STRAPPEREI LO STOMACO. E OGGI NON MI SONO CONTROLLATA. SONO PROPRIO UNA STUPIDA FALLITA CHE NON SA IMPORSI. E SI FA COMANDARE CONTRO LA SUA VOLONTA’. E IO DAVVERO VORREI ESSERE IN GRADO DI LASCIARMI MORIRE DI FAME. DOPO TUTTO CHE SENSO HA VIVERE? STAR MALE E BASTA. E PREOCCUPARSI DI TUTTO. MA DI TUTTO QUELLO CHE TI VIENE IMPOSTO E BASTA, PERCHE’ DOPO E’PROPRIO POCO IL TEMPO CHE TI RIMANE PER FARE LE COSE CHE TI PIACCIONO. E POI LA GENTE E’ ODIOSA E NON TI RISPETTA E C’E’ TANTO VUOTO ATTORNO CHE FA SCHIFO. E IL BELLO E’ CHE NON SI RIESCE A NON PENSARE ALLA MERDA CHE TI IMPONGONO, PERCHE’ E’ L’UNICA COSA CHE HAI E TE LA DEVI FAR ANDARE BENE. E TI IMPEGNI PERCHE’ SOLO DA QUESTA PUOI TROVARE SODDISFAZIONI ANCHE SE IN REALTA’ NON TE NE FREGA UN CAZZO. E VORREI RIBELLARMI A TUTTA QUESTA IMMONDIZIA, MA TUTTO IL MONDO VIVE IN QUESTA, E DI QUESTA. MA CHI CE LO FA FARE DI VIVERE? NESSUNO. NESSUNO CI OBBLIGA A VIVERE E FORSE TUTTO SAREBBE PIU’ BELLO SE CI RINUNCIASSI. SAREBBE TUTTO PIU’ FACILE. SAREBBE IL NULLA. NULLA DI QUESTO CORPOREO DI MERDA. NULLA DI TUTTO QUESTO MATERIALE.”

Il mio corpo è il solo che sa parlare veramente del mio dolore, ed io lo ascolto…
A poco a poco mi trasformo in ciò che lui mi dice. Io e la morte, ora una sola cosa…

21aprile2002
“Questa mattina pesavo poco! Vorrei gridarlo al mondo intero: sono tanto felice! Più o meno 37,5.”

26aprile2002
“…ultimamente sento le ossa del mio bacino: sono stupende!”

4maggio2002
“Oggi è sabato e mi sono pesata: 37. E cazzo! Sono contenta. Sono contenta e leggera.”

Nel corso del tempo, il mio dimagrire ha creato attorno a me uno spazio privato…intoccabile da ogni male…
La magrezza mi protegge e, tenendomi lontana dalle forme di vita comuni, mi rende invulnerabile. Critiche, osservazioni malefiche e parole di accusa, spariscono dalle bocche delle persone che mi circondano. Il mio corpo minuto fa ammutolire. Grazie a Dio. Pace per le mie orecchie e per il mio cuore non ancora cicatrizzato dalle ferite del passato. Apprensione, accoglienza, delicatezza e curiosità iniziano a prendere forma attorno a me. Finalmente ho scoperto come catturare il cuore degli altri, ma purtroppo così facendo, sto allo stesso tempo catturando me stessa. La lastra di cristallo che mi separa dalla realtà funge da lente, per chi mi vede, di quello che è il mio sentire, ma non manca di essere fortemente un impedimento a quella che è l’emanazione del mio calore. Congelata dal mio male, mi riduco per la maggiore parte del tempo a soffrire il freddo che mi isola da tutto. L’attenzione a forme corporee sempre troppo abbondanti, mi impedisce di coltivare i contatti che sono riuscita ad aprirmi con tanti digiuni. L’attenzione a parlare bene almeno attraverso il corpo, mi costringe a continue restrizioni alimentari e a continue attività per bruciare ogni minima forma di energia introdotta. La vita sociale, negandomi la possibilità di non mangiare in santa pace o di camminare fino allo sfinimento, non mi appoggia nel comunicare me stessa.
Sempre più sola e ossessionata dall’idea di essere troppo grassa.

Solo a sprazzi facevo capolino nell’esistenza con la mia curiosità. Il mondo che prima di allora mi aveva sbattuto la porta in faccia, lentamente comincia a guardarmi. Io, finalmente accolta da chi si sforza di capire, timorosa e impaurita, cerco di riemergere…
Chissà com’è la vita là, fuori dal mio scheletro…

Nel tempo, considero l’idea che il liceo stia per giungere alla fine, e questo, mi dà il coraggio e la speranza per poter ricominciare a vivere. Tuttavia l’ombra della non accettazione degli altri mi pietrifica…
Dalle pagine dei miei diari leggo la gioia che provavo ogni volta che perdevo peso, l’angoscia data invece dall’aver ceduto alla fame, anche solo mangiando cinque pomodorini. Corse attorno al tavolo della sala per aver bevuto un cucchiaio di brodo in più, fierezza nel sentire le mie ossa. La sera, rannicchiata nel mio letto in posizione fetale su un fianco, godevo nel dolore che le ginocchia appuntite, una contro l’altra, mi davano. In casa, la tensione data dal mio essere fantasma in decomposizione, la percepivo pur lasciandola al di fuori dei miei interessi. Parole titubanti da ascoltare cercavano di illuminare le mie membra assenti. Io sperduta nell’immensa voglia di dimagrire e nel desiderio costante di riuscire a non nutrirmi.
Poi un giorno, la proposta dei miei genitori di un colloquio al Centro Disturbi Alimentari di San Vito.
E io, con il mio silenzio, ho accettato…
Dentro di me a volte riuscivo percepire il dolore. In ben pochi momenti di lucidità, lo sentivo che calpestava la mia vita…Camminando sopra di me, mi stava schiacciando con le sue pretese incoerenti all’esistenza. Tumulto di percezioni e confusione nel capire. Vita e morte erano al mio interno. Le loro urla strazianti mi assordavano costantemente rendendomi incapace di ascoltare. Guardando le anime del mondo, vedevo la diversità del mio essere. Affascinata ed infastidita da questo, realizzavo che il solo osservare tali discrepanze era segno importante di qualcosa… Forse angosciata, forse stufa, forse curiosa, forse speranzosa…mi ritrovo a raccontare di me in una stanza di ospedale adibita ad ufficio. Forse per accontentare i miei genitori, forse per dargli un po’ di sollievo…
In quello stesso ospedale, mi sarei recata per i successivi mesi anche con cadenza di due volte la settimana.
Al centro, partecipo ad ogni attività mi venga proposta, ma dentro di me un desiderio totalmente opposto a quanto mi venga offerto. Appuntamenti nei quali si cerca di fare emergere le mie risorse, non impediscono di rafforzare la mia necessaria autodistruzione.
In gruppi informativi si parla dei pericoli del vomito auto indotto, dell’iperattività, di un peso eccessivamente basso. Io però penso di essere grassa e di dover eliminare qualsiasi cosa entri nel mio interno. Serrati digiuni, decine di pastiglie di lassativi, conati rigurgitanti la bile e ginnastica ad oltranza sono indispensabili perché io possa raggiungere il mio obiettivo. In gruppi motivazionali si parla di vantaggi e svantaggi della malattia. Io per niente convinta di essere malata. Le compagne di sventura che con me partecipano alle conversazioni, snocciolano una serie di ostacoli portati dalla sofferenza. Io in solitudine, ho la testa piena di gratificazioni legate alla più magra magrezza da me ambita. La dietista cerca di farmi avere un’alimentazione quanto meno regolare, senza eccessi in restrizioni od abbondanze. Io voglio smettere di mangiare. La psicologa tenta di mettermi in contatto con me stessa, ma sono sorda a quanto non sia il desiderio di perdere peso.
Le mie emozioni e i miei pensieri rapiti dall’espressione del mio corpo: ogni sforzo di chi cerca di aiutarmi trovava in me poco spazio.
Nella mia mente, sempre e solo la voglia di dimagrire.

24maggio2002
“Laura tu come ti senti?
…Laura non si sente…”

“Ho tantissima paura…la mia mente continua ad ospitare due voci contrastanti: una che mi dice di sforzarmi a mangiare il minestrone per evitare il ricovero ospedaliero, e l’altra che mi vuole sempre più magra. (…) SVUOTATA NELLO STOMACO E NELLA MENTE.”

Il mio peso continua a scendere ed io, per avere la certezza di chiudere definitivamente con la scuola e soprattutto con i ricordi ad essa legati, accetto di ricorrere all’alimentazione meccanica.
Il responsabile del centro di San Vito e la nutrizionista si mostrano sempre più preoccupati e non è da meno il primario della clinica di Vicenza con il quale sono stata messa in contatto.
Da fine maggio al 30giugno2002 sarò violentata da un tubo che entrando dal naso e scendendo nello stomaco mi forniva le energie necessarie a sostenere i tanto odiatiamati esami di maturità.
Nonostante, infatti, io avessi accettato la proposta di chi si stava finalmente interessando a me, non vedevo di buon grado l’aumento di peso.

Se il mio corpo si fosse modificato, come avrei potuto parlare di me con parole inesistenti?

Ogni bolo che entrava nel mio stomaco: il mio stupratore. Ogni grammo di carne attorno le mie ossa: la sua mano che mi tappa la bocca per non urlare.


Nel frattempo, l’incontro con Elisa…
Fragile, triste e con gli occhi di un azzurro opaco, subito ho saputo sentirla…
Lei, incapace come me di parlare, camminava per le strade di Pordenone con la sua folta chioma bionda e trascinandosi dietro un corpicino che sembrava potersi spezzare da un momento all’altro.
Ho voluto incontrarla, conoscerla.
Ho cercato conforto dandole il mio cuore. Ho cercato il mio cuore ricevendo il suo conforto.
Giorno dopo giorno, i nostri pensieri hanno ricominciato ad esprimersi, come fossero quelli di un neonato che prova a pronunciare le sue prime parole.
Lei sola sapeva accogliere la mia flebile voce, e tuttavia, riusciva a sentire chiaramente le mie poche, deboli parole. Il desiderio di cambiamento, solo con lei trovava sfogo verbale. Le ho confessato le mie paure, il mio dilaniante dolore, le mie perplessità e quanto di più devastante trovava spazio dentro di me. Da parte sua tanto silenzio, e occhi che lucidi parlavano di compassione. Con coraggio e soprattutto desiderio di aiutarla, mi sono prodigata in una lotta al male per farle vedere che sarebbe stato possibile un cambiamento. Convincendomi a mia volta delle parole che con lei pronunciavo, dentro di me creavo la forza per provare.
Incuriosita dall’idea di una esistenza diversa e sempre più consapevole di voler provare a rivivere, ho iniziato la battaglia più dura ed estenuante che mai avrei potuto immaginare.
Due giorni dopo gli esami di maturità, il 1°luglio2002, sono stata ricoverata a Villa Margherita, a Vicenza.
Da lì, a spada tratta verso la salvezza…paradisiaca ed infernale…

Al mio ingresso, oltre alle valige, ho portato me stessa. Spogliata della maschera del lungo carnevale che fino a quel momento aveva dettato la mia vita, mi ritrovo Laura priva di identità.
Penso…
La mia identità…
Chissà dov’era finita…Frasi e parole affollano la mia mente.
Io, il mondo. Mondo che non accetta quello che sono. Mondo che non accoglie la mia persona…perché?…io che mi travesto…Io che cerco uno spiraglio in mezzo agli altri. Io che non riesco a recitare la parte datami dalla società.
Voglio recitare solo me stessa. Me STESSA. Nel mondo.
Eccomi! Sono pronta.

h.9.00 in segreteria a compilare i moduli che regolano l’inizio del mio ricovero in una clinica che si occupa di disturbi del comportamento alimentare. Il mio però non è un disturbo alimentare…è un modo di mostrarmi…un modo per parlare con persone incoerenti ed inconsistenti di sentimenti…

…ed io soffro l’indifferenza delle persone…
Tuttavia, nel nuovo mondo nel quale scelgo con la mia volontà di provare a vivere, sembra che l’origine del mio male non esista…
In clinica ritrovo un piccolo paradiso terrestre. Anime vaganti parlano con i loro occhi. Parlano con il loro cuore, ed io finalmente mi sento riconosciuta. La mia sofferenza trova comprensione e sostegno da chi condivide la mia lingua. Ragazze bellissime cercano, con l’aiuto del personale del reparto, il significato dei loro gesti.
Gruppi motivazionali, relazionali, colloqui con psicologa, psichiatra, infermieri e responsabili   aiutano noi, anime alla deriva a ritrovare la nostra strada.
Tredici camere e una sala da pranzo compongono l’interno del reparto assegnato alla cura di persone con disturbi del comportamento alimentare. Adiacente a questo e sotto, altri due reparti di psichiatria, il tutto circondato da un bellissimo parco con prati, alberi, fiori, stradine e panchine nei quali era possibile immergersi nei ritagli di tempo non strutturato con attività inerenti al percorso di cura. I colli Berici mi accoglievano quando al mattino aprivo la finestra della camera. Vicenza, giorno per giorno, si guadagnava uno spazio nel mio cuore.
Emozioni fortissime mi investono e per l’ennesima volta non posseggo parole per descrivere ciò che ho dentro.
Ho conosciuto persone speciali che mi hanno semplicemente ascoltato, capito, confortato, cercato il mio ascolto, la mia comprensione, il mio conforto.
Sigarette fumate e chiacchierate scandivano i miei minuti, le mie ore. Parole sincere fluttuavano da cuore a cuore, da anima ad anima. Lacrime e sorrisi, serenità e agitazione, gioie, dolori, delusioni, paure univano me alle ragazze che, provenienti da tutta Italia, come me tentavano di riappropriarsi della propria vita.
Già dal primo giorno sono stata affidata ad una dietista con la quale ho impostato la mia alimentazione giornaliera. Con enormi sforzi e sofferenze sono riuscita a seguirla, ma la paura era paralizzante. La tachicardia al momento dei pasti rendeva difficile ogni movimento.
L’accettazione e la condivisione dei miei sentimenti da parte delle mie compagne di sventura, mi hanno incoraggiata, giorno per giorno a continuare la mia lotta.

5luglio2002
“Dio mio sono spaventata terribilmente. Il formaggio era buonissimo e mi dà tanto fastidio ammetterlo. Odio ammetterlo e odio che mi sia piaciuto. Mi sono sforzata di mangiarne quasi più di metà e mi sono sentita in colpa. Perché ho ascoltato le mie voglie, il mio gusto.”

La confusione continuava ad imperare nella mia mente.

7luglio2002
“Mmm… devo dire che le mie ossa, cazzo, mi piacciono troppo! Quelle del bacino non riesco a capire se sono tornate belle come prima…un pochino forse si. Ma comunque sono quelle delle spalle le più fantastiche! Soprattutto quelle della spalla sinistra!E quelle del torace: mi si vedono tutte le costole e sono proprio stupende!”

Le mie ossa, sempre e solo loro le parole del mio male…

8luglio2002
“Credo che il cuore mi batta forte: lo sento che pulsa nella cassa toracica. Non so, credo di avere paura. Paura che mi dicano non so, tipo di sforzarmi a mangiare (…), ma io, cazzo, non ci riesco! Ho paura (…)! Se mi dicono che sono rimasta stabile o addirittura che sono aumentata mi viene un infarto!”

La consapevolezza di dover aumentare di peso mi stordisce, ma cerco di accettarla:

“L’aumento di peso è il primo passo da muovere sulla via della guarigione”

“L’aumento di peso è solo l’inizio di una nuova vita. Tu prova a percorrerla, potrai sempre tornare indietro.”

h. 8.00 colazione, h. 10.00 spuntino, h. 12.00 pranzo, h. 15.00 spuntino, h. 18.00 cena, h. 20.30 spuntino.

Le giornata, così scandite, variavano a seconda degli appuntamenti con la psicologa, la dietista, i gruppi e le visite mediche.
Ricordo con gioia le ore successive la colazione, alla mattina. Anche il rimpianto mi pervade… Era per me il momento più bello della giornata. Borsa sulla spalla, bottiglia d’acqua in braccio, andavo alla macchinetta del caffé: 50 centesimi, senza zucchero, caffè lungo. Poi mi sedevo sui gradini fuori dalla chiesetta e il bar della casa di cura, accendevo una sigaretta, bevevo il caffè e assaporavo la vita.
Attorno a me, quelle che tuttora sono rimaste nel mio cuore come le mie migliori amiche. Parole di sconforto, di gioia ma soprattutto di condivisione, riempivano il mio cuore, e le mie ferite magicamente cicatrizzavano.

Seguendo i consigli di chi ha accettato di prendersi cura di me, affronto il cibo con maggiore serenità. Ho voglia di riscoprirmi e di esplorare il mondo. La mia mente sente il bisogno di accogliere pensieri diversi dal conteggio di calorie e di distogliere l’attenzione dalla mia fisicità.

L’attenzione e la curiosità delle persone incontrate in clinica, mi induce a riversare verso me stessa le medesime premure.
Il confronto con chi vive il mio medesimo inferno mi permette di osservami come una parte fondamentale del mondo. Il poter dare e ricevere in eguale misura, mi offre la possibilità di acquisire nuovamente un po’ di consistenza, e di iniziare a comprendere la ricchezza che possiedo dentro di me. La costante svalutazione verso la mia essenza e la sfiducia verso tutto quanto fosse di mia appartenenza a poco a poco si dissolvono. La sensazione di essere una nullità, di non essere all’altezza, di essere indegna, di non essere abbastanza, si trasforma. I miei sorrisi e le mie lacrime si mescolano con coerenza a sorrisi e lacrime di chi mi è accanto, creando una pozione magica capace di guarire…
Tra le mura che circondano Villa Margherita, però, c’è per me anche un tesoro…
La dolcezza e la sensibilità che Claudio porge nei miei confronti, mi sprona ancora di più a riconquistare il mio cuore. Claudio: angelo dal cuore infranto, anche lui in cerca dei minuscoli pezzetti della sua emozionalità, dispersi nel mondo dalla bufera della superficialità…
Tra una sigaretta e l’altra, in attesa di una visita medica, mi ha detto un giorno: “Lo sa signorina che lei ha dei bellissimi occhi?”
Io, fino a quel momento solo scheletro, mi accorgo di avere anche due occhi. Per di più bellissimi…Con una semplice frase Claudio ha bussato al mio cuore. Io da parte mia, mi propongo finalmente come padrona di casa delle mie emozioni. E decido di aprirgli.
I miei incubi relativi al mangiare e all’aumento di peso si diradano lasciando spazio ai sogni…

29luglio2002
“Caro diario ho un bel po’ di confusione in testa e il cuore che mi batte fortissimo quando sto con Claudio e quando gli penso. Per ora passiamo solo degli splendidi momenti insieme. A parlare, fumare, ridere, scherzare e io sto davvero tanto bene.”

I desideri di una vita mi pervadono e illuminano le mie giornate. Il mio amore per Claudio mi rende una persona con progetti e previsioni per il futuro; il mio percorso terapeutico, sempre in salita, mi pare una scalata al termine della quale vedo però che potrò riposarmi accanto chi mi accetta incondizionatamente. Sulla vetta, nessuna maschera e nessun vestito di carnevale. Io e Claudio a Villa Margherita come Adamo ed Eva…
Quando l’ho incontrato, però, mai avrei creduto che fuori da quel giardino dell’Eden ci fossero tante mele avvelenate di cianuro…
Con il passare dei giorni e dei mesi la mia alimentazione acquisiva sembianze umane, e il mio corpo di conseguenza riconquistava la sua femminilità.
Il mio percorso di cura è proseguito quindi in day hospital.
Trasferite tutte le mie cose dalla stanza del reparto ad un appartamento nel centro di Vicenza, ho iniziato a sperimentare l’indipendenza e la responsabilità. La clinica, in accordo con una cooperativa, aveva a disposizione due appartamenti nei quali venivano accolte le ragazze che avevano acquisito adeguate capacità relazionali e autonomia nella gestione del mangiare. Ad una degenza scandita dall’accudimento, si sostituisce un ibrido di vita reale. Colazione e spuntino serale anziché consumati in reparto saranno lasciati al nostro sentire, così come il dopo cena ed i fine settimana. Alla mattina: colazione con le proprie compagne d’appartamento e poi subito alla stazione delle corriere per raggiungere i colli vicentini.
La parola “indipendenza” si affaccia nel mio vocabolario con titubanza, ed io con prepotenza me ne impossesso. Travolta da ondate di sentimenti per me sconosciuti, mi ritrovo incapace nella loro gestione. Il mio corpo che non è più mio alleato nelle discussioni del quotidiano, viene fagocitato dal tumulto che mi investe. Folate di percezioni e passioni mi urtano violentemente graffiandomi le braccia, le gambe. Le mie emozioni mi travolgono come tir tracciando dove possono tagli di coltelli, taglierini e graffi di chiavi. Bruciature e scottature di fantasmi che non riesco ad interpretare marchiano la pelle delle mie caviglie, dei miei avambracci, delle mie cosce. Il disturbo alimentare è quasi scomparso, ma il suo perché più profondo ancora aleggia attorno a me…
Forse stufa del controllo che gli altri esercitano su di me, tento di spiccare il volo e propongo le mie dimissioni. Ho bisogno di esprimermi. Ho bisogno di essere e di capire. Un ritorno a casa è l’unica cosa che può permettermi di esplorare me stessa nell’anima.
Ma il percorso là fuori è così oscuro…
Nuovamente sballottata dalla vita che tanti disagi mi aveva creato, mi ritrovo all’interno di un tornado.

6luglio2003
“Vomito il rifiuto. Perchè tanta amarezza?
Il vuoto mi riempie
e io non voglio sentirlo.
Rido, parlo tra nuvole di fumo,
consiglio, ascolto.
Dentro di me tutto tace.
E’ la morte che mi possiede.
Provo a scacciarla, ma senza troppa forza.
Ho un motivo per stare male: la morte.
Nient’altro per la testa.
Chiunque voglia provi a farmi
battere il cuore.
Ancora una volta.
Io non ci sarò.
Sarò fuggita fluttuando
nel denso, umido, scuro
inferno paradisiaco che ho chiamato a me.”

La mia incapacità di stare nel mondo mi sbarra ogni porta. Le paure e le incomprensioni, ma soprattutto la sordità delle persone continuano a trafiggermi di giorno in giorno. La società nella quale tento di inserirmi cercando un lavoro, va dritta per la sua strada lasciando lungo i cigli cadaveri putrescenti di esseri umani che semplicemente muoiono di noncuranza. I sentimenti non appartengono a questo cosmo…Ed io boccheggio accasciata in un angolo.
La bufera di stimoli che mi travolge, muove per me anima e corpo. Io, impotente di reazioni, mi ritrovo in un mondo fatto di sesso e di fumo.

13luglio2003
“PARANOIE NOTTURNE. DELIRANTI.
Paranoie per aver mangiato una mela. Una mela buttata giù con la speranza di allontanarla dal mio corpo domani.
Mongolfiera che fluttua come il fumo della sigaretta che offusca l’inchiostro su questo foglio. (…) Io. donna crescente, non riesco a tenere i miei sentimenti. Volano da soli senza problemi. Le loro ali non sono come quelle di Icaro. Arrivati al sole, si rinvigoriscono,e si fermano davanti a lui. A guardarlo mentre è distratto. Per tanto tempo sono rimasti a terra, seppelliti in essa. Ora, urlano libertà, della quale però si sentono vittime. Donna incosciente che di notte non riesce a dormire. Nel cervello tanti pensieri che vagano senza scopo. In fondo sono inutili. A cosa servirà mai pensare? Forse è masochismo. Forse è pessimismo appositamente cercato sperando che non trovi conferma. Occhi socchiusi per la stanchezza della giornata. Voglia di letto che porta altri pensieri. Pensieri, pensieri, pensieri, sentimenti infondati.

27luglio2003
“Cuore di pietra
dalle cui vene sgorga
il suo sangue.
Uno schianto e la morte.
Sangue che giace solitario
in una pozza.
Ed è lì che prende
di nuovo vita il
sasso. Nel suo esploso dolore.”

Nel cantuccio che sono riuscita a ritagliarmi al ritorno nella città che tanto mi aveva disprezzata, accolgo ogni sorta di stimoli. Ho bisogno di riconoscimento, e lo cerco mettendo da parte anche la mia dignità. Ho fortemente bisogno di sguardi ammirati verso quella che è la mia persona, non il mio corpo. Abbraccio la conoscenza di nuova gente, chiunque essa sia, e mi ritrovo attorniata da nuove falsità e leggerezze. Non avendo altri appigli, accetto. Accetto e soffro in silenzio annullando me stessa con tutto ciò che posso. Fagocitata ancora una volta dal nulla, in esso scompaio, così come quelli che sono i miei sentimenti più puri. La mia nuova commedia mi riserva risvolti dolorosi.
Il mio amore e i miei valori cancellati…dissolti…
Il mio amore e i miei valori svaniti chissà dove…ormai perduti…

17agosto2003
“NON HO COSCIENZA DI ME STESSA. Posso espanderla.”

“IO ORA SONO L’ESSENZA DEI MIEI FANTASMI”

1SETTEMBRA2003
“VOGLIO STARE MALE
LOGORARMI LENTAMENTE
SENZA ACCORGERMENE.
MORIRE DIVENTANDO INVISIBILE.
SENZA PESARE, A NESSUNO.
AUTODISTRUZIONE.
Ogni giorno una piccola cellula io la uccido.
SOGNO. SCHELETRO PERFETTO,
FORMA PERFETTA DIFFICILE DA RAGGIUNGERE.
LEGGEREZZA. VOLARE.
SFIORARE I PAVIMENTI.
GODERE DEL MALE e degli
SCRICCHIOLII del mio CORPO.
SPERANZE…che non
smetterò di avere.”

“VOGLIA DI MORIRE.
voglia di guarire.
VOGLIA DI IGNORARE.
voglia di amare.
VOGLIA DI NULLA.
voglia di qualcosa.
VOGLIA DI SOLITUDINE.
voglia di compagnia.
VOGLIA DI RIMANERE FUORI DAL MONDO.
…nel mondo ci sono anch’io.
(…)Voglia di sopravvivere e basta.”

Senza accorgermene, delineo quella che è la mia vita attuale…
Io, ancora burattino del dolore, cammino su una strada che i miei fili mi hanno costruito…prigioniera…incatenata.
Solo un piccolo spiraglio, mi permette di intrufolarmi nell’idea di iniziare una vita autonoma. Slegata dalla dipendenza dei miei genitori, cerco più che posso di recidere i tanti fili che mi imprigionano.

Iniziato un lavoro gratificante, trovo la possibilità di trasferirmi altrove…e di entrare in una nuova realtà…un nuovo copione…
Punto e a capo.
Allora…sceneggiatura? Attori?
Intanto si definisce il setting.

Provo a guardare quello che mi circonda per l’ennesima volta. E’ estenuante il lavoro che faccio giorno per giorno cercando di capire dove diavolo sono capitata. Da più di due anni non vivo più con la mia famiglia, bensì nel paese nel quale ho trovato lavoro. Da diversi mesi, ripresa la mia vita nei luoghi in cui il mio male aveva iniziato ad emergere, avevo iniziato a soffrire di tutto ciò che mi circondava. Sentivo l’esigenza di provare a camminare davvero con le mie gambe e prendere in mano la situazione. Probabilmente ancora troppo giovane, essendo rinata dai torpori di digiuni allucinogeni, mi sono buttata a capofitto senza troppo soffermarmi. Eccomi: vivo in una villa insieme ad un ragazzo. E quel ragazzo, nel giro di poco tempo è diventato il mio compagno di vita. Cercato? Voluto? Accettato? Domande inquietanti e dolorose alle quali, a distanza di molto tempo, inizio a cercare una risposta.
Forse, volendo scappare da me stessa, mi sono tuffata in un mondo totalmente estraneo per potermi ricostruire da zero. Senza fare i conti con quella che in realtà ero “IO”.
Pausa. Riflessione interessante…
Stufa di continue elucubrazioni mentali su quello che stavo vivendo, mi sono infatti allontanata da quello che più mi permetteva di scoprirmi. “Presa” da nuovi impegni, ho sospeso gli incontri con il responsabile del centro di San Vito. E solo ora ne acquisisco consapevolezza. Probabilmente avevo bisogno di non guardare…necessità inconsapevole di non intrufolarmi nel mio cuore…
Lavoro e piscina scandivano le mie nuove giornate che in apparenza mi riempivano di soddisfazione. In realtà, io, null’altro che un pesciolino fuori dall’acqua.
Senza dare troppo peso a quanto mi si creava attorno, ricordo giornate annebbiate di fumo e la luce del sole filtrare dalle fessure delle tapparelle. Testa sotto le coperte e insofferenza diffusa che il giorno successivo cancellavo dalla mia memoria.

Lontana da persone che con me potessero condividere paure e angosce ancora suscitate dal dovermi nutrire, soffocavo in me dolori e perplessità che solo chilometri macinati nelle vasche della piscina comunale riuscivano ad alleviarmi.
Il mio ragazzo, ignaro della complessità della mia persona, ha sempre cercato di aiutarmi minimizzando, credo, quello che era il mio sentire.
Ed invece, era proprio di accoglienza ciò di cui ho sempre avuto bisogno.
In giorni difficili riconosco l’affanno nel percorrere la vita dalle mie scelte nel nutrirmi. Esigenza di dimagrire, di mangiare meno o due dita in gola, mi sussurrano alla mente che forse qualcosa non và. Nel presente trovano applicazione gli insegnamenti ricevuti in clinica: un atteggiamento anomalo nel mangiare e pensieri disfunzionali non sono altro che un linguaggio in codice il cui significato è da ricercare nelle proprie paure, difficoltà, delusioni, insuccessi.
In giorni difficili nei quali sembra che io sia sorda alle parole di Igor e viceversa, mi accorgo di quanto poco io sia in contatto con me. Dispersa in un mondo che si è impossessato della mia persona, non so da che parte rivolgermi.

5marzo2006
“Questa mattina mi sono svegliata sapendo che il mio ragazzo, ancora addormentato nel nostro letto, con me non è felice.

È una giornata piovosa, e il mio essere emozionale si è perfettamente immedesimato con l’universo. Il grigiore e le lacrime del cielo sono dentro di me. Così come una distesa di solitudine.

Dopo quattro anni di tentativi di vita autentica, ancora non so dove sono…Dentro di me percepisco il riconoscimento della mia persona, ma purtroppo c’è qualcosa che mi impedisce di partorirla. Il mondo continua a girare ed io ho paura a salire sulla sua giostra con un salto. Avrei bisogno che si fermasse. O forse, avrei bisogno di iniziare a girare da me e poi ritrovarmi tutt’uno con quello che mi circonda.

Guardo dentro di me.
In un cantuccio piccolo piccolo del mio stomaco, eccomi rannicchiata. In prossimità dell’ombelico, forse appena sotto. Sono piccola; piccolissima, e mi viene da accovacciarmi e chiudermi come un riccio per avvicinarmi il più possibile a me.
Eccomi.
Relegata in un minuscolo spazio, forse solo ora ne acquisisco consapevolezza. Solo ora guardo in faccia una verità della quale non ero ancora riuscita a catturarne lo sguardo.

È difficile trovare uno spazio per gli altri quando non ho spazio neanche per me stessa

…Silenzio…

Voglia di un corpo sempre più esile, voglia di controllare la mia fame, voglia di sentirmi dire che sono troppo magra, mi creano nella mente molta confusione. In lontananza la consapevolezza che ancora ci sia qualcosa di oscuro, dentro di me…Guardandomi allo specchio provo la sensazione che l’immagine che a me ritorna non sia parte di me. Guardo e non trovo una spiegazione ai miei sentimenti. Nel cervello il pensiero di non essere stata accompagnata nella riscoperta delle mie forme. Nessun sostegno che mi abbia sorretta nel vedere Laura diventare donna. All’inizio, solo Claudio che mi ha presa per mano senza dire niente. Ora, richieste da ogni dove mi rubano alla mia attenzione.

Il mio corpo…
un macigno con il quale non riesco a convivere pacificamente. Sempre a ferro e fuoco con la sua imponente presenza, tutt’oggi soffro nel trascinarmi ossa e carne per le vie del mondo. Sempre in stretto legame con lui, ho passato lunghi momenti attaccata all’illusione che solo lui potesse sorreggermi nella mia vita. Fermamente ancorata al pensiero che solo la figura del mio scheletro avrebbe potuto darmi felicità, gioie e successi, mi sono ritrovata in un vortice ammutolente del quale ancora non ho capito bene le regole. E purtroppo parte di me è rimasta impigliata a convinzioni inconsistenti. Pur avendo ritrovato la gioia nel mangiare, in momenti particolarmente faticosi del mio percorso di crescita mi ritrovo trattenuta dalla magia che aleggia attorno all’essere magra…essere magra…la soluzione a tutto…il rimedio ad ogni male…
La razionalità, consapevole della vacuità di queste voci, non mi permette tuttavia di ignorare con leggerezza i tarli del mio pensare. Il fastidio nel vedere “tutta questa carne” attaccata a me, mi ritrova solitaria tra le mura di casa piuttosto che in mezzo alla compagnia di amici. Il fastidio nel sentire il mio essere carnale quando vengo accarezzata, mi ritrova incapace di amare e di vivere l’innamoramento.
Addirittura l’essere donna si intrufola come fosse una dannazione all’interno della mia materia grigia…chissà, forse lunghi momenti di digiuni hanno consumato anche quella…
La penna tra le mie dita ha scritto sul mio diario: Odio avere le mestruazioni. E mi fermo in sospensione…Sono donna ma odio essere donna…e la mia attuale vita senza malattia, mi impedisce di esprimere questo disagio…Solo il rifiuto del contatto con me stessa attraverso gli altri, mi permette di fare emergere questo mio sentire, impedendomi però di amare. Confusione nelle parole, scrivo per cercare una spiegazione. Nel quotidiano, mi intrufolo nei miei meandri senza arrendermi e cerco un miglior contatto con me stessa. Cerco di ascoltarmi. I colloqui con il terapeuta che da alcuni anni si sta prendendo cura di me, non mi hanno ancora permesso di entrare nella mia intimità, ma continuo imperterrita a spiare le mie interiora. Discussioni sul come sentirmi maggiormente parte del mondo, mi portano a vedermi solitaria in mezzo a una miriade di esseri umani. Solo per brevi tratti accompagnata da spiriti affini al mio.

In alcuni giorni, accanto a me, Elisa ascolta, comprende e soffre.
Intrapreso anche lei un percorso nuovo all’interno della sua esistenza, capisce e accoglie le mie difficoltà. Il nostro camminare con movenze simili, ci permette di sostenerci a vicenda. Obiettivi e mete diverse, tuttavia, ci rendono entità speciali e differenti e anche il nostro sentire ci ritrova su strade parallele ma separate. Lei che cerca serenità, appagamento e soddisfazione per aver saputo creare qualcosa con le sue forze, io che cerco accettazione da me stessa. Lei che si odia quando le cose vanno male, io che mi odio quando le cose vanno male. Solo chi ha ceduto la propria anima alla morsa della fame può capire, e dentro di me rimpiango Villa Margherita. Richiamo a me il pensiero di essere scheletro per ritrovare complicità e accettazione che sembrano estranee alle persone che ora conosco. Ricadere in un mondo dalla lingua tagliente e dai falsi costumi mi angoscia e mi paralizza cementandomi nell’idea che la magrezza possa tutt’ora un’infinità di cose.
Dentro di me, in un cantuccio, i ricordi sbiaditi dei pesanti disagi generati dall’inedia. A fatica, purtroppo, rammento la falsa idea di potenza datami dal perdere peso. Io che credevo che arrivata a 40 kg sarei stata la persona più felice del mondo. Io che arrivata a 40 kg volevo arrivare a 39, 38… La nebbia imperava. O forse si chiamava “paura”. Una paura mascherata dal cibo, e poi dal fumo, e poi da altre cose ancora…Oggi so che di paura si tratta, ma ancora non riesco a guardarla in faccia. Innumerevoli complessità coprono le sue maligne membra e dentro di me aleggia la sua presenza… Rifacendo il letto di casa mia eccola che bussa con prepotenza: lacrime che sgorgano dai miei occhi mi dicono che lei è ancora con me, ed io sono stufa. Pensieri rinnovati di suicidio mi attraversano, e boccheggio soffocata dalla loro crudeltà gratuita. Nell’anima la sensazione di smarrimento mi tiene compagnia, e nello scrivere questa mia storia un accenno consistente di sospensione mi svuota delle mia viscere. Impulsi incontrollati sembra mi abbiano portata fino a questo mio presente senza chiedermi niente. Scelte non fatte e condizioni accettate sembra abbiano deciso la mia esistenza. Io cerco di spiegarmi, ma trovo solo garbugli.
In momenti di veglia cerebrale, il sole che splende nel cielo e il profumo di miele dei fiori sugli alberi, mi danno la forza per proseguire, e per ritrovarmi ancora qui. L’università, il lavoro e il vivere da sola mi ricordano quanto, fino ad oggi e nonostante tutto ho fatto per me stessa.
Con determinazione e memorie d’ogni sorta che affollano il mio cuore, continuo tentoni sulla via che ho imboccato chissà quando. Trascinando il mio cuore pesante di dolore, proseguo con la speranza, un giorno, di sentirmi più leggera. Per aver intrapreso una dieta a base di amore, di comprensione e di accoglienza.

…poi ad un tratto apro gli occhi.
Il cuore in gola.
La stanchezza del lungo viaggio percorso mi ha praticamente addormentata. La lunga strada nei miei meandri più reconditi è giunta al suo termine.
Eccomi, sono io. E finalmente mi sono accorta di me stessa.

Nell’estate del 2006, un sabato pomeriggio di quelli indimenticabili per il caldo, ho rincontrato Claudio. Dopo novecentosessantacinque giorni. Ci siamo incontrati in accordo a Venezia, ed è stato come se, tutto il tempo per il quale non ci eravamo più visti, non fosse mai trascorso. Nella confusione della stazione, eccolo camminare verso di me: scarpe nere, pantaloni neri, maglietta bianca, occhiali da sole e a tracolla una borsa. Il suo sorriso, sempre lo stesso ma più maturo, un sorriso di tenerezza, gioia e riconoscenza. In pochi attimi tutto era già chiarito tra di noi. Senza parole, ma solamente con la luce dei nostri occhi, abbiamo visto entrambi il nostro futuro. Da lì all’eternità abbiamo realizzato di essere anime inseparabili.
Abbiamo cominciato a parlare delle nostre vite, i nostri sogni, i nostri progetti e passioni, e abbiamo continuato a farlo per i giorni a seguire fino al presente. Mano a mano che il nostro rapporto ha riacquistato consistenza e concretezza, io ho ricominciato a volermi bene. La gioia che mi ha abbracciata da quel fatidico giorno non mi ha più lasciata, e le risate che accompagnano ogni mio incontro o telefonata con Claudio mi rendono sempre più forte.
Le difficoltà che tutti e due abbiamo avuto tre anni fa, si sono praticamente risolte grazie alla forza di entrambi. Io per la mia strada e Claudio per la sua. Gli screzi del passato sono stati assorbiti dalla nostra crescita. Abbiamo imparato ad essere bastevoli per noi stessi senza doverci sostenere l’uno all’altro in modo fagocitante. Abbiamo scoperto dentro di noi i nostri pensieri e le nostre emozioni, e piano piano abbiamo imparato ad ascoltarli. Ora, possiamo goderne entrambi in modo autonomo ed anche in condivisione, e credo che nulla di più bello avrei mai pensato di sperare per la mia vita e la mia felicità.
Spesse volte, nei nostri incontri del fine settimana, ci ritroviamo a pensare al futuro. Il piacere nello stare insieme è talmente tanto che il desiderio di condividere finalmente la quotidianità si fa sempre più grande. Tuttavia, ognuno dei due ha i propri impegni da portare a termine, e perché i sogni diventino realtà ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Claudio aspetterà. Io aspetterò.

I minuti insieme e lontani trascorrono, ma nonostante l’immensa felicità che provo nel mio presente, forse c’è ancora qualcosa che non va…Continuando i colloqui con psicoterapeuta e dietista, mi trovo a pensare che forse ci sono ancora delle questioni da risolvere. Non riesco a mantenere un peso stabile, e a quanto pare mi dicono che sono un po’ a rischio. Il numero indicato negli ultimi mesi dall’ago della bilancia, forse è troppo basso. Recupero qualche etto oggi, ne perdo altrettanti domani. Se mi chiedono di arrivare ad avere il minimo dell’indice di massa corporea previsto, li mando a fare in culo. Perché c’è tanto allarme? Mi sento serena, felice, soddisfatta. Il mio lavoro mi consente enormi gratificazioni, lo studio mi diverte, stare con Claudio mi riempie il cuore. Cosa c’è che non va? Qual è il problema?!?
“…il fatto che non riesce a staccarsi dalla sua copertina del controllo del peso” mi dice la dottoressa con la quale controllo il mio peso e la mia alimentazione un paio di volte al mese. “…il fatto che chi viene in questo centro, non viene per passarci il tempo. Viene perché ha una malattia.” “…il fatto che le sue condizioni di salute fisica la possono portare al collasso…”.
Malattia. Collasso. Paura di aumentare di peso. Cazzo.
Forse allora non è proprio tutto risolto come credevo…. Ma cosa devo fare allora per …? La rabbia mi percorre, e mi chiedo davvero cosa diamine dovrei fare. Ora come ora mi sento molto bene dal punto di vista psicologico. Faccio tutto ciò che mi piace fare, condivido parte della mia vita con una persona che mi fa sentire importante ed amata, non ho ossessione di cosa mangiare o cosa non mangiare, né tanto meno di voler perdere peso. Il mio corpo lo accetto e me ne prendo cura… perché mai dovrei cercare di raggiungere quel peso che tanto mi ha fatta soffrire qualche tempo fa? Perchè tornare in una condizione che mi ha portata ad odiarmi ed isolarmi?
…non capisco….

E forse non c’è niente da capire. Va bene, ho sofferto di un terribile male. Ma adesso sto bene. Mi rallegro di tutto quanto ho conquistato e spesso sorrido. Il mio passato mi ha formata, cresciuta e portata fino a qui, ma questo non vuole per forza significare che è ancora il mio presente. I digiuni, la voglia, il desiderio e il godere dei morsi della fame, la voglia di essere invisibile, sempre più leggera, sempre più spigolosa, sempre più scheletro, sempre più morte hanno fatto parte di me. E di me fanno tutt’ora parte solo per il fatto che con il tempo mi hanno portata a desiderare altro per me. Sono riuscita ad andare oltre il solo aspetto fisico e a concentrare le mie attenzioni verso altri ambiti. Mai potrò dimenticare chi è Laura e chi è stata Laura, né tanto meno voglio farlo. Sono orgogliosa di me per tutto quanto sono, sono stata e spero di essere in futuro.

22marzo 2007
Ore tarde serali, quasi vicine al sonno. Settimana praticamente alle spalle preceduta a sua volta da uno splendido fine settimanali relax. Come spesso, era venuto Claudio a trovarmi: casa libera per via di genitori in trasferta montanara, Spuzzi assente perché in altrettanta trasferta montanara. Oltre le nostre anime, solo la loro fusione. Per due giorni sono noi due. Solo noi. Noi.
Risate, chiacchere, prese in giro e giochi il nostro sfondo, ed ecco che Claudio e Laura, pur senza uno studiato copione, realizzano il sogno. Uno scorcio della loro vita futura insieme li fa emozionare. Passione spontanea e tenero amore. All’apparenza niente, nel profondo la luce. Il lunedì ecco che ritorna. Mai stato tanto bello per la forza di un ricordo …ma ecco assumere le sue normali sembianze… Alzata presto al mattino, papà che, precedendo il sole, si sveglia e va a correre, Mummi ancora addormentata e Spuzzi che prende i mio posto sotto le coperte. Colazione, vari preparativi, e si parte. La settimana così com’è iniziata, si sta già concludendo. Tra le sue braccia porta la mia serenità e quant’altro mi ha accompagnata in questi scorsi sette giorni. Ore di lavoro, lettura del libro di scuola intitolato “Psicologia generale”, scorsa di pagine in inglese, passeggiate con la mia cagnolina, lavoro a maglia, altro genere di lavori manuali. Un sacco di cose, o forse poche. Dipende da che punto di vista la si vuole guardare. Ma soprattutto, non ha nessuna importanza. Il fatto è che, tante o poche, per me sono tutte cose importanti, gratificanti e divertenti. Senz’altro sono un po’ ingombranti quelle che risultano un dovere, ma in fondo tutte fanno parte di me stessa. Ed ecco che un po’ per volta tutto torna al suo posto. La condizione di equilibrio che da luglio mi accompagna, è molto forte. Acuendo l’attenzione su me stessa, posso scorgere molteplici momenti di gioia, serenità, soddisfazione. E l’ombra dello sconforto sale nei rari giorni di stress in cui tutto sembra troppo pesante, e dai contorni troppo allargati. Si chiama paura di aumentare di peso, paura di ingrassare a vista d’occhio nel giro di brevi attimi. Eccola qui con me. Sempre la benvenuta perché omai di casa. Ma va bene così. Ormai ho imparato a comportarmi con lei. Evito di darle corda, semplicemente. Non le permetto di dare adito ad alcun respiro. “Se vuoi esserci, siici, ma sappi che sei solo una mia illusione!” E l’unica arma che ho a disposizione è solo una. Sbarrarle la strada con barricate a base delle solite fette biscottate e latte bollito al mattino e due pasti secondo quella che viene definita dieta dissociata. Abolizione totale per una serie di alimenti troppo pericolosi e per fortuna caduti nel dimenticatoio dei sapori da parecchi anni.

“L’inferno dei viventi non è quello che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Italo Calvino)

Io, adesso, sto imparando a capire e a riconoscere gli sprazzi di luce che nel mio inferno quotidiano, mi permettono di continuare vivere nonostante l’ostile mondo che mi ha accolta. So che è difficile. So che è impegnativo, ma per ora ci sto riuscendo e sto mettendo a fuoco come fare perché questo mio impegno si concretizzi, nel presente e nel futuro.

Dott. Roberto Ostuzzi
Scomparso il 27.12.2009
“Moltissime ragazze affette da disturbi del comportamento alimentare e i loro familiari sono oggi profondamente colpiti e addolorati dalla scomparsa del dr. Roberto Ostuzzi, che è stato per molti anni il loro punto di riferimento. In particolare l’ADAO Friuli Onlus, che raccoglie molte di queste persone, vuole ricordare con affetto e riconoscenza questo grande medico che ha curato il corpo, ma soprattutto il cuore di migliaia di giovani che si sono affidate alle sue cure.

Il suo modo di fare era sempre affettuoso, anche quando doveva essere severo, riusciva sempre a trovare la parola giusta al momento giusto e a dedicare un po’ del suo – sempre mai sufficiente – tempo, per una battuta, un’uscita ironica, una pacca sulla spalla, che illuminava la giornata delle sue pazienti.

In un luogo di sofferenza e di dolore come la Clinica dove ha lavorato per molti anni, ci si sentiva protetti, sicuri di cure efficaci e umane.

Con Lui, la conoscenza e la cura dei DCA hanno fatto grandi progressi e ora lascia un vuoto difficilmente colmabile.

La sua figura umana e professionale resterà sempre impressa nei cuori di chi l’ha conosciuto e apprezzato.

Alla famiglia e ai suoi collaboratori il nostro cordoglio: il loro dolore è il nostro dolore.

A Lui il nostro immenso GRAZIE!”

(ADAO Friuli Onlus)

Su Facebook è stato creato un gruppo di ex pazienti e amici del Dott. Ostuzzi:

http://www.facebook.com/profile.php?id=100000586703739&ref=search&sid=100000659014074.3042216739..1

Su YouTube, “Pe(n)sa differente”, intervista al Dott. Ostuzzi:

E’ strano come per tutta la vita ci si possa sentire soli, desolatamente soli. Poi d’un tratto entra nella tua qualcosa che ti fa sentire meno sola, ma allo stesso tempo t’isola da tutto e da tutti. Diventa la tua compagna, la tua migliore amica, parte di te, ma nello stesso tempo ti succhia tutte le energie, la vita stessa, facendoti allontanare da tutto e tutti.

Questo è stato per me la bulimia. Quella che qualcuno chiama Mia.

Voglio raccontare e rivivere come ho conosciuto la bulimia e come sia diventata parte di me. Lo voglio fare per me stessa, soprattutto, ma anche per essere di monito e aiuto a chiunque si trovi nella mia stessa situazione.

Ad un certo punto della mia giovane vita ho cercato di staccarmi da quella che era una vera e propria ossessione, che mi soffocava. Ho letto libri, navigato in internet, seguito trasmissioni televisive per capire come poter rompere questo circolo vizioso in cui ero caduta. Eppure ogni volta restavo con l’amaro in bocca. L’unica cosa che mi era chiara, era che questo mio malsano rapporto di simbiosi con la bulimia nasceva da un malessere interiore così profondo da farmi rivoltare contro me stessa, contro il mio stesso corpo, fino a volermi distruggere.
La bulimia era diventata la mia malattia. Una sanguisuga che si nutriva di me, del mio corpo ma soprattutto della mia mente, lasciandomi vuota e stanca.
M’identificavo con essa, eppure ora, dopo quasi dieci anni, ho capito che io non sono la bulimia, io sono me stessa ed esisto, così come sono, a prescindere da essa.

Ho sempre amato molto la scrittura ma non ho mai cominciato veramente a scrivere, prima d’ora. Anche perché la bulimia non me lo permetteva. Mi faceva credere che sarebbe stato tempo rubato ad altro e non potevo permettermelo. E’ stato un grosso errore. Non bisogna mai lasciare che qualcosa c’impedisca di fare ciò che amiamo, di seguire i propri sogni. Il rischio è quello che una parte del nostro cuore si inaridisca e poi muoia, incapace di dare amore.

E’ difficile stabilire quando è cominciato tutto. I ricordi sbiadiscono, fuggono via e arrivano solo dei frammenti a volte, a volte pagine intere.

Ma cominciamo con ordine, prima che la bulimia s’insinuasse nella mia vita.
La mia è una storia normale, come tante, credo.
Mia madre restò incinta piuttosto giovane, si sposò sia per amore ma anche perché all’epoca non aveva molta scelta. Così nacque mio fratello. Dopo qualche hanno l’amore, forse troppo acerbo, finì e mia madre si ritrovò sola, con un bambino piccolo da crescere.
Il paese è piccolo e la gente mormora. Probabilmente non le sembrò vero di conoscere un altro uomo, mio padre, che volesse lei e il suo bambino.
Così, da questa relazione, forse un po’ improbabile, nacqui io. Per far tacere la coscienza collettiva, i miei genitori si sposarono quando io avevo ormai tre anni.
La vita in casa non era delle migliori. I miei genitori litigavano raramente. D’altronde non si parlavano quasi mai. Sembravano due estranei che vivevano in un albergo.
Mio padre lavorava per un’azienda statale. A causa di un incidente con un macchinario agricolo aveva perso tre dita della mano destra e non poteva più fare lavori manuali.
È sempre stato un uomo robusto e diabetico, mio padre. Più vecchio di mia madre di diversi anni. Quando nacqui io era vicino ai quarant’anni e già fisicamente poteva sembrare mio nonno.
Una volta sposati, mia madre, per volontà di mio padre, lasciò il lavoro per fare la casalinga. Lei è sempre stata molto dolce, quasi remissiva, sottomessa a mio padre, benché lui non mettesse mai le mani addosso a me o a lei. La sua era una violenza psicologica. A volte se la prendeva con mio fratello, probabilmente perché non era suo figlio.
Ero cicciotella, come mio padre e che quando andai all’asilo dovetti mettere gli occhiali da vista, per completare l’opera. Mi sentivo goffa e inadeguata.
Ero timida, paurosa e non avevo amici. Nei dintorni di casa non c’erano altri bambini con cui fare amicizia e mio padre non gradiva che ci fossero altri bambini per casa. Mi sentivo così sola, esclusa. Mi sentivo diversa.
Con mio fratello andavo relativamente d’accordo. Con quasi dieci anni di differenza sarebbe stato difficile avere un rapporto di complicità. Però giocavamo insieme a volte.
L’atmosfera in casa era molto particolare. Tornavo da scuola, toglievo subito gli occhiali, che per me erano un incubo, mangiavo, studiavo, giocavo sempre da sola o con mia madre mentre mio padre era a lavorare oppure dietro casa a fare bricolage o giardinaggio. Non ho molti ricordi di giochi o svaghi. La mia compagna era la televisione, almeno finché non imparai a leggere e mi si aprì il modo nuovo e meraviglioso della lettura.
Avrei preferito che al posto del grande orto dietro casa ci fosse stato un giardino verde in cui correre e al posto dei cani da caccia addestrati e rinchiusi nei box ci fosse un piccolo cucciolo tutto per me che scorazzava felice. Per fortuna però i gatti non mancavano mai a casa mia. Arrivavamo ad averne anche una dozzina. Però a mio padre non piaceva che entrassero in casa, per cui in sostanza vivevano fuori. Il loro compito era cacciare i topi. A volte, quando lui non c’era, li facevo entrare di nascosto, per potermeli godere un pochino in santa pace.
Per anni mio padre mi promise che quando avesse smesso di andare a caccia, avrebbe preso un cane di piccola taglia. Lui tuttora va a caccia e io starei ancora aspettando. Credo che per lui tutto si riducesse all’utilità degli animali, non al piacere della loro compagnia. Il veterinario non veniva mai chiamato, neanche nei casi estremi. Spesso i gatti finivano investiti da una macchina, poiché abitavamo su una strada molto trafficata, o avvelenati da esche per topi e i cani che si ammalavano di tumore non venivano curati ma lasciati morire o abbattuti.
Quando vivevamo ancora tutti insieme, a pranzo e a cena bisognava restare in rigoroso silenzio, mentre mio padre seguiva il telegiornale. Non si parlava molto a tavola e c’era sempre la televisione accesa. Avevamo un televisore quasi in ogni stanza!
Adoravo il pane e gli yoghurt alla frutta per bambini! Ho una bellissima polaroid che mi ritrae, con due codini biondi e spavaldi, seduta sul pavimento della cucina, con un’enorme pagnotta tra le mani, mentre sorrido all’obiettivo.
Non andavamo mai fuori a cena o a mangiare la pizza, perché secondo mio padre costava troppo ed era una spesa inutile. Allora quando lui faceva il turno di notte mia mamma andava a prendere la pizza e la coca cola per me lei e mio fratello e mangiavamo di nascosto.
Abitavamo in una villetta piuttosto grande, a due piani. Era ed è tuttora molto bella, ma l’uso di alcune stanze ci era precluso. Allora perché farla così grande, pensavo io.
Mia madre dormiva in camera con me, perché da piccola avevo avuto una malattia e lei restava accanto a me notti intere a vegliarmi. Da quella volta non è più tornata a dormire con mio padre.
La sera mio padre restava in cucina a vedere la televisione, mentre noi tre ci trovavamo in camera mia, tre in due letti, a guardare la televisione. In mezzo ai due letti c’era un comodino dove nascondevamo i biscotti. Così, guardavamo la televisione e mangiavamo biscotti di nascosto. Ad una certa ora mio padre passava davanti a camera mia, apriva la porta, ci guardava senza dire nulla, poi la richiudeva e andava via.
Una sera, credendo che io dormissi, mia madre disse a mio fratello che lei non mi avrebbe voluto avere ma che non avrebbe mai abortito. Era stato mio padre a volermi e a fare in modo che io venissi concepita. Fu un dolore che mi sono portata dentro per diversi anni
Tutti gli anni andavano al mare in un piccolo paese, le prime due settimane di Luglio, nell’appartamento di un collega di mio padre. Ricordo ancora quel piccolo trilocale e quando ci passo davanti tuttora gli rivolgo un sorriso. Tutte le estati mi tagliavano i capelli corti corti, a maschio! Purtroppo mia madre e mio fratello non potevano soffrire il sole, così spesso andavamo in spiaggia solo io e mio padre.
Sono sempre stata brava a scuola ma per mio padre non era mai abbastanza. Se prendevo “buono” invece che ottimo, anziché lodarmi mi guardava e chiedeva: “ come mai, cosa è successo?” e a me sembrava di aver preso insufficiente.
Finalmente, quando compì nove anni mia madre decise che ero abbastanza grande per capire e chiese la separazione da mio padre.
Toccai il cielo con un dito! Finalmente sarei andata via da quella casa triste e da questo padre così severo, buio, quasi un orco.
Però mi sentivo diversa, perché i miei erano gli unici genitori, tra i miei compagni di classe, ad essere separati. Le maestre si preoccuparono molto per me, in quel periodo.
Il giudice grazie al cielo mi affidò a mia madre. Dovevo andare da mio padre a fine settimana alterni, per Pasqua o Natale e due settimane in estate.
Così mi ritrovai a programmare i miei fine settimana di adolescente cercando di evitare gli impegni quando ero con mio padre, perché lui non voleva. Oltre a questo mi ritrovai ad andare con mio padre in ferie al mare fino ad adolescenza inoltrata. Quando l’appartamento fu venduto la tradizione finì. Mi sarebbe piaciuto che fosse mio padre a comprarlo.
Conobbi anche dei coetanei in spiaggia, con cui mi ritrovai per diversi anni, ma ero impacciata e goffa. Con gli anni ci perdemmo di vista, anche se tuttologi abitano a pochi chilometri da me.
Ogni volta che poteva mio padre mi parlava male di mia madre, mio zio, mia nonna, mio fratello. Mia madre non ha mai detto nulla di male su mio padre. Tra l’altro non serviva, ero perfettamente in grado di giudicarlo da sola.
Dopo la separazione io, mia madre e mio fratello andammo a vivere a casa della nonna materna. Anche lì non fu facile. Mia nonna, vedova, era una donna di altri tempi. Persino più rigida di mio padre. Da lei non si poteva stare in camera da letto durante il giorno, non si potevano tenere animali ed era meglio non invitare gli amici. Insomma ero caduta dalla padella alla brace.
Fu lei che mi mise le mani addosso per la prima volta in vita mia. Per fortuna fu anche l’ultima. Non ne ricordo neppure il motivo, eppure brucia ancora.
Mia madre nel frattempo aveva ripreso a lavorare e a guidare la macchina. Dopo circa un anno e mezzo lasciammo la casa della nonna, che viveva molto meglio sola, e mia madre prese in affitto un piccolo appartamento malandato. Però costava poco, era tranquillo e vicino al centro.
Lì ho vissuto tante esperienze importanti ed è lì che per la prima volta ho aperto la porta alla bulimia.
Gli anni intanto passavano e arrivò il tempo delle scuole superiori.
Ero notevolmente grassa. Il cibo mi teneva compagnia, specialmente davanti alla televisione.
Ero già passata da diversi dietologi, dietisti e nutrizionisti, ma dopo un calo di peso iniziale, mi stabilizzavo e non avevo più la forza di continuare delle diete che non capivo. Semplicemente non mi interessava dimagrire. Nel fine settimana in cui dormivo da mio padre, poi, lui non mi faceva mai seguire la dieta.
Alle scuole superiori sperimentai le prime cotte e le prime delusioni di cuore.
Non avevo un ragazzo, nessuno mi voleva. Mi sentivo brutta e non degna di amore. Mi guardavo allo specchio e scoppiavo a piangere. Avrei voluto prendere i rotoli di ciccia e stapparmeli di dosso con le unghie.
Vedevo le mie compagne di classe così magre, così belle e ammirate. Anche se spesso ero più brava di loro negli studi e davo loro ripetizioni.
Ero piuttosto brava a scuola e davanti a me si apriva un futuro di successo, o almeno così tutti credevano.
Mi presi una cotta per il secchione della classe e persino lui non ne volle sapere di me. Dopo tanti anni ci ritroviamo ancora ogni tanto e sorrido al pensiero dei miei sentimenti passati.
Quando finivo scuola, mio padre mi veniva a prendere alla stazione tutti i santi giorni, così non potevo neanche fare delle nuove amicizie. Mi sentivo bloccata dentro il mio guscio. Non avevo la forza per tenere le distanze da mio padre. Lo studio non mi lasciava tempo per altre attività pomeridiane.
Per fortuna a scuola incontrai quella che tuttoggi considero la mia migliore amica e altre amiche con cui i rapporti sono rimasti saldi da allora.
Ad un certo punto, decisi che per avere successo ed essere accettata dovevo assolutamente dimagrire e dovevo farlo in fretta.
Per prima cosa iniziai una dieta di quelle che si trovano sui settimanali femminili: la dieta del minestrone. Io, che odiavo le verdure, mi nutrivo solo di minestrone e frutta. Cominciai a calare di peso velocemente però dopo qualche tempo non ce la facevo più a mangiare minestrone, così eliminai anche quello e cominciai a nutrirmi solo di mele.
In poco tempo persi dieci chili. Ma non era abbastanza. Fu attraverso la televisione che conobbi la bulimia.
Sapevo che poteva essere pericolosa ma in quel momento era la soluzione a tutti i miei problemi.
Potevo finalmente mangiare tutto quello che volevo, senza paura di ingrassare. La bulimia mi aiutava a svuotarmi, a smaltire le troppe calorie ingerite.
In breve tempo, dimagrii 40 chili.
Ero felice, perché il mio corpo si assottigliava, potevo mettere quei bei vestiti che portavano la mie amiche e non solo enormi maglioni sformati. E non ero più sola. La bulimia era una compagna, una cosa solo mia.
Ero in paradiso! In discoteca i ragazzi cominciavano ad avvicinarsi! Mi sentivo di assomigliare di più a tutti gli altri. Mi sentivo invincibile.
Però cominciai a sentirmi debole, a soffrire di crampi notturni, di svenimenti. Ad educazione fisica non riuscivo più nemmeno a saltare la trave perché i muscoli non mi reggevano. In quarta superiore non riuscivo più a studiare, arrancavo e volevo mollare la scuola. Così mia madre parlò con il preside, anche per spiegare le mie continue assenze e io parlai con gli insegnanti. Era umiliante dire ai miei insegnanti che ero bulimica. Devo dire che pochi capirono la mia situazione ma conclusi piuttosto bene la classe quarta, passai la quinta quasi di rendita e uscii dalla scuola con un ottimo punteggio, nonostante lo spettro della malattia
Nascondevo le tracce della bulimia, sperando che nessuno se ne accorgesse. Sapevo che nessuno avrebbe approvato il mio comportamento. Nessuno capiva la malattia e nessuno capiva me. Solo io e Mia ci capivamo perfettamente. Quando andavo in bagno a vomitare aprivo un rubinetto o attaccavo la centrifuga della lavatrice per non far sentire i rumori della vomitata, dopo stavo attenta a pulire bene tutto e a lavarmi i denti.
Finché un giorno mia madre aprii la porta del bagno e mi chiese da quanto tempo andavo avanti così. Fu il momento più umiliante della mia vita.
Era da qualche tempo che sospettava che vomitassi tutto quello che mangiavo e aveva ragione.
Ricordo che la domenica pomeriggio andavo in discoteca con le amiche. Allora, siccome volevo essere magra, mi facevo preparare solo una minestrina a pranzo e poi vomitavo anche quella. Io volevo trovare un ragazzo, per non essere più sola, per essere amata, coccolata, considerata e credevo che se fossi stata magra avrei avuto più probabilità di essere notata.

In realtà avevo così tanto bisogno di essere amata che feci l’errore di far entrare nella mia vita qualunque ragazzo mostrasse un po’ di interesse per me. Mi sembrava così incredibile che qualcuno mi trovasse amabile e carina.
Naturalmente così mi facevo solo del male. Non ero in grado di scegliere le persone con cui relazionarmi e ancora oggi ho serie difficoltà nelle relazioni.
Il primo ragazzo che baciai fu un ragazzo alto alto e biondo ossigenato, che incontrai in discoteca. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Venne anche a trovarmi ed ebbi con lui i miei primi, inesperti e non proprio piacevoli contatti intimi. Gli feci anche un regalo per il suo compleanno. Ero proprio un’ingenua. Avevo perso la bussola. Quando un ragazzo in discoteca si sentì male scoprii che Giacomo era uno spacciatore e consumatore abituale di pasticche. Lo cercai ancora dopo quell’episodio. Lui non si fece trovare e finì li. Solo dopo mi resi conto di aver corso dei seri pericoli con lui e di essere stata molto fortunata. La bulimia non mi abbandonò mai in quei momenti. Era sempre lì, pronta a consolarmi, senza giudicarmi.
Eppure mi sentivo sfortunata, respinta. Neanche uno così mi voleva.
La mia vita continuava. Studiavo e uscivo con le mie amiche. Finché una sera incontrai un ragazzo del paese che conoscevo da anni.
Lui naturalmente non mi conosceva o perlomeno non mi riconosceva. Con un trucchetto mi prese il numero di telefono e cominciò a mandarmi messaggi. Mi disse che era stato folgorato da me.
All’inizio non mi sentivo attratta da lui, perché era in sovrappeso e a dirla tutta credevo fosse omosessuale. In realtà molti lo credevano e tuttoggi non saprei dire se lo sia oppure no.
Però mi sentivo lusingata dalla sua corte e da come mi corteggiava. Così accettai un suo invito a uscire ed iniziai con lui una storia molto controversa che durò circa tre anni.
Ecco, pensavo, si è accorto di me perché sono diventata magra e sono diventata magra grazie alla bulimia. Senza gli effetti che essa portava, lui non si sarebbe mai accorto di me.
Chissà cosa sarebbe successo se non avessi accettato il suo invito. È buffo, la bulimia assomiglia molto al canto ingannatore delle sirene.
Mio padre però non lo poteva soffrire e io non riuscivo a legare con i suoi amici. Litigavamo spesso per questo. Non riuscivamo ad avere rapporti intimi e in breve per i suoi amici divenni “La mummia”. Lui era un vulcano quando eravamo in compagnia e io mi rintanavo in un angolino, a fare da attaccapanni. Ad onor del vero non è che i suoi amici facessero molto per farmi sentire a mio agio.
I primi tempi non gli parlai mai dei miei disturbi alimentari.
Mia madre, preoccupata del mio rapporto esclusivo e distruttivo con la bulimia mi convinse a chiedere aiuto per trovare un modo per guarire. Mi capitò anche di svenire nelle situazioni più impensate, come in gita scolastica. Che vergogna! O peggio ancora in treno mentre ero in vacanza lontano da casa con un’ amica! Doppia vergogna! Dovettero venirmi a prendere in piena notte all’ospedale.
Però sentivo il bisogno di questa malattia e non riuscivo a smettere, non potevo e non volevo. Mia madre s’informò, prese un appuntamento e mi accompagnò ad un centro per disturbi alimentari vicino casa, sperando che mi potessero aiutare.
Avevo 17 anni.
Decisi di dire al mio ragazzo della bulimia e di spiegargli che cercavo di guarire. Lui non batté ciglio e accettò la mia situazione. Avevo molta paura che una volta saputo della malattia mi avrebbe lasciato, ma non fu così.
Così cominciò il mio percorso, lungo, faticoso e per certi versi solitario verso il distacco dalla bulimia.

Iniziai le mie visite al centro. Mi sentivo etichettata e non era facile rispondere alle domande intime e precise che mi venivano poste.
Per un certo periodo fui seguita da una dottoressa. Era giovane, simpatica e mi dava del tu. Però non faceva per me. Con lei non riuscivo a parlare. Mi sembrava che parlasse sempre lei. Ricordo che allora il centro si trovava in un luogo un po’ nascosto, intimo e raccolto. C’erano anche delle riviste da leggere mentre aspettavi. Lo preferivo alla corsia d’ospedale così fredda e scoperta dove si trova tuttora. Mi sembra sempre che tutti mi guardino come se avessi scritto sulla fronte “bulimica”. Sicuramente non è così, però è come mi sento.

Forse non ero ancora pronta. Forse allora la malattia mi serviva ancora. Seguivo le istruzioni e il percorso. Per un periodo riuscii a staccarmi dalla bulimia, ma poi cominciai a mentire e a dire che non facevo più abbuffate e non vomitavo più ma non era vero.
Seguii degli incontri di gruppo con altre ragazze che avevano problemi simili al mio, ma mi sentivo a disagio. Cominciai a scrivere il diario alimentare. Lo odiavo e sinceramente tuttoggi non lo sopporto. Feci mucchi di test sulla personalità. Mi sentivo una cavia da laboratorio e a volte non capivo come tutte quelle cose avessero a che fare con la mia dipendenza dalla bulimia.

Mia madre, nonostante il lavoro, riuscì per un periodo a frequentare i gruppi di sostegno per i genitori. Mio padre andò una volta e poi mai più. Tanto aveva sempre ragione lui e tutti gli altri non capivano niente.
Già, mio padre… Mio padre che prima mi diceva che ero grassa e poi, una volta dimagrita, che non avevo più il sedere. Onestamente mi dava fastidio che mio padre mi guardasse il fisico e mi giudicasse. Mi metteva a disagio. Commentava sempre l’aspetto delle mie amiche, mi confrontava con loro.

Ricordo quando decisi di parlargli della bulimia, su consiglio di mia madre. Non gli avevo mai parlato di me. Ricordo che eravamo soli, a casa sua, sul divano. Gli raccontai della bulimia e che volevo guarire. Lui pianse e mi abbracciò.
In quel momento ne fui contenta, ma col tempo quell’abbraccio per me diventò come il bacio di Giuda.
Infatti, da allora cominciò a controllare cosa facevo e con chi mi vedevo. Non lo sopportavo. Non mi aiutava così!
Mio nonna mi disse che se non mi liberavo della bulimia sarei rimasta una disgraziata per tutta la vita. Che bel sostegno. Comunque non credo che la mia povera nonna, succube di mio padre, abbia mai capito cosa sia veramente la bulimia. Mio padre a tavola mi controllava quanta acqua bevevo e mi fermava se secondo lui bevevo troppo per poi vomitare meglio. Stava ad origliare se andavo in bagno e mi diceva che quando entrava in bagno dopo di me, c’era un odore che gli sembrava che io gli avessi vomitato in faccia. Mi sentivo umiliata.

Per un certo periodo uscii dalla bulimia, credevo di essere guarita definitivamente e a diciannove anni decisi di farmi un tatuaggio come simbolo della mia guarigione. Una farfalla, simbolo di nuova vita.
Però poi ci ricascai e non volli più andare dalla psicologa. Era magra, non avevo più massa muscolare, avevo la gola così gonfia da sembrare un criceto e sulla mano destro portavo i segni dei denti, a causa degli sforzi che facevo per vomitare.

Nel lungo percorso, che ormai dura da circa 10 anni, mi sono accadute tante cose.
Mio fratello si è fidanzato, è andato a convivere, poi ha avuto un figlio e infine si è sposato, andando ad abitare in un’altra provincia.
Mia madre nel frattempo avevo cominciato a frequentare degli uomini e aveva conosciuto il suo attuale compagno.
Quell’uomo non mi è mai piaciuto. Col senno di poi probabilmente avevo ragione ma all’epoca forse ero solo gelosa.
Nello stesso periodo il mio rapporto con il mio ragazzo si stava spegnendo, mi diplomai e iniziai a lavorare.
Mia madre, convinta che il mio ragazzo sarebbe venuto a convivere con me, andò a vivere con il suo compagno. Pochi mesi dopo io lasciai il mio ragazzo dopo tre anni passati insieme e mi trovai a vivere e a mantenermi da sola a diciannove anni.
Dopo qualche mese che ero single il compagno di mia madre si presentò a casa mia con rose e pasticcini, intenzionato ad insegnarmi i segreti del sesso. Lo respinsi e mangiai e vomitai tre giorni di fila. Mi faceva schifo. Non dissi nulla a mia madre.
Per un lungo periodo provai rancore per mia madre. Scaricavo tutto il mio dolore attraverso la bulimia ma non potevo continuare così. Così ritornai al centro per i disturbi alimentari e cambiai terapeuta. Con questo nuovo dottore, che mi segue tuttora, iniziai il percorso che mi ha portato dove sono ora. Forse lui era la persona giusta o forse finalmente io ero pronta a chiudere definitivamente con questo calvario. Questo non significa che il mio percorso da quel momento fu tutto in discesa, ma fu un nuovo inizio.

In questi anni ho sempre convissuto con la bulimia. Era un rapporto deleterio, che mi prosciugava le forze. Il mi primo lavoro fu presso uno studio di un commercialista che mi contattò, grazie al voto con cui mi ero diplomata e lavorai lì per due anni. Stavo bene, avevo delle colleghe meravigliose, però il lavoro era un po’ monotono e volevo avvicinarmi a casa.
In quegli anni frequentai un gruppo serale di auto mutuo aiuto misto. Fu una esperienza molto bella e intensa e ancora oggi ricordo molte delle persone che conobbi lì. Era un gruppo misto, non specifico per i problemi alimentari. C’erano alcolisti, persone depresse, sole però ci si confortava e si parlava senza giudicare. Io ero la più giovane e l’unica ad avere problemi alimentari. Lì conobbi un ragazzo che faceva il militare di carriera in un paese vicino al mio. Per un po’ ci frequentammo ma non era il mio tipo e con il tempo ci allontanammo.
Grazie alla segnalazione di una mia amica, trovai impiego come segretaria in una ditta edile artigiana del mio paese.
Qui all’inizio ero in crisi perché ero sola e il lavoro era nuovo. Ogni volta che ero in crisi ricorrevo alla bulimia. Lei c’era sempre, mi aiutava a scaricare lo stress. Era come tornare a casa.
Al lavoro nessuno si accorgeva di nulla e io non dicevo niente. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo sola al mondo, depressa e piangevo. Non mi piacevo ed ero sempre insicura di tutto.
Il lavoro era il mio mondo. Piano piano imparai molte cose, vinsi la timidezza e diventai una collaboratrice importante per l’azienda.
Lavoravo anche un paio di sere a settimana così non potei più frequentare il gruppo di auto mutuo aiuto.
Qui, dove lavoro tuttora, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo.
Con il tempo i titolari cominciarono a fidarsi di me e a darmi sempre maggiore responsabilità. Mi sentivo viva, utile ma ogni volta che sbagliavo mi sentivo di aver fallito completamente e di aver deluso i miei datori di lavori.

E’ un ambiente più caldo e familiare di quello in cui lavoravo prima. Col tempo uno dei soci mi prese sotto la sua ala e diventammo amici, direi. In realtà forse io vedo in lui il padre che non ho avuto e lui una figlia abbastanza grande per aiutarlo nel lavoro.

Quando una persona a lui vicina morì per colpa dell’anoressia, decisi di confidargli che convivevo da anni con la bulimia. Lui un po’ si spaventò, cercò di capire, di aiutarmi ma non era possibile. Dipendeva da me. Ero molto chiusa, non esprimevo i miei sentimenti e non mi fidavo di nessuno, perché nella vita avevo dovuto sempre affrontare i problemi da sola ed era l’unico modo che conoscevo.
Con il tempo imparai a fidarmi di questo uomo e il fatto di potergli parlare dei miei problemi mi dava sollievo.
Certo, c’era sempre la mia migliore amica con cui parlare, eppure lui, come uomo e come persona più esperta, a volte riesce a darmi un a visione che io non avevo preso in considerazione.

Per qualche mese, nell’appartamento in cui vivevo da sola, vennero ad abitare con me mia nonna, malata di Alzheimer e mio zio, mentre ristrutturavano casa. Non era facile, per me, dividere gli spazi di nuovo con altri dopo tutto quel tempo da sola e soprattutto con un’anziana malata che non distingueva il bagno dalla camera o il mio letto dal suo.
Dopo circa un anno che lavoravo in ditta, il titolare mi propose di comprarmi un appartamento usato accendendo un mutuo, invece di pagare l’affitto.
Mi sembrava una cosa impossibile. Io non avevo garanzie, avevo solo il mio lavoro. Eppure lui aveva fiducia in me. Trovai una banca disposta a darmi il finanziamento. Così a ventuno anni, divenni proprietaria di un piccolo appartamento in paese. Certo ci sono cose da sistemare, ma è stato un grande passo.
Nel corso del tempo ho avuto l’occasione di fare vari corsi, che mi compensavano del fatto di non aver potuto studiare.
Infatti, tutti si aspettavano che andassi all’università. Le cose non sono andate così, perché mi sono trovata a dover lavorare per pagare l’affitto e le spese. Mia madre non aveva possibilità economiche, mentre mio padre voleva che in cambio del suo sostegno economico io andassi a vivere da lui. Non potevo farlo. Sono convinta che se fossi andata a vivere con lui sarei impazzita o peggio. Era un prezzo troppo alto da pagare.
E in tutto questo tempo e durante le vicissitudini della mia vita, la malattia è sempre stata con me. Mi faceva stare male ma mi serviva. Mi faceva sentire diversa eppure non riuscivo a staccarmi del tutto. Certo, con il trascorrere del tempo e la terapia, le mie abbuffate non erano più frequenti e impegnative come prima. Avevo ripreso peso e una certa forza. Ma ancora non riuscivo a fare a meno di vomitare. Credevo fosse parte integrante di me. Mi aiutava a superare i momenti difficili, a mantenere il controllo. O almeno questo credevo.

Ho sempre creduto che i miei problemi derivassero da mio padre. Quando mi diplomai, scelse e comprò un auto per me. Me la consegnò ma era comunque sua. Prese a seguirmi, anche quando uscivo con le mie amiche e non voleva che il mio ragazzo guidasse le sua auto. E’ tua ma è mia, mi diceva.
Di notte veniva di nascosto nel cortile di casa mia per controllare se c’era la macchina, spaventando così i miei vicini di casa.
Per un lungo periodo credette che mi drogavo e mi prostituivo! Proprio io che ebbi il mio primo rapporto completo a ventuno anni suonati.
Mia madre cercava di fare da tramite ma mio padre non era gestibile. Arrivò ad organizzare una riunione con me, lui e mia madre, registrandola su audiocassetta. Io non lo sopportavo. Cosa avevo fatto di male? Lavoravo, mi mantenevo, uscivo di rado e sempre con le mie poche amiche. Non mi sono mai drogata e di certo non andavo con gli uomini. Perché mi trattava così? Perché mi tormentava? Stavo tremendamente male per questo. Mi sentivo umiliata e sminuita.

Così, di comune accordo anche con il mio terapeuta decisi che non potevo continuare così. Andai da mio padre, gli riconsegnai l’auto e gli dissi che non ci saremmo più visti.
Lui mi disse che confondevo l’oro con l’ottone.
Nei primi tempi cercò di telefonarmi, mi lasciò delle cose nella buca della posta e mi seguiva.
Piano piano la mia vita procedeva.

Comprai la macchina di mia madre a mille euro per potermi muovere. Non so come faccia ancora a funzionare! Però ci sono affezionata e non ho soldi per comprarne una nuova. Finché il motore funzionerà lei resterà con me, nonostante lo sterzo duro e la carrozzeria rovinata. In fondo è con lei che sono stata per la prima volta in vacanza da sola, al mare. Un paradiso. Indovinate dove? Ma nello stesso paesino di mare in cui andavo da bambina!
Come ho detto all’età di ventuno anni comprai un appartamento, che si trova a sole tre case di distanza da quella di mio padre. Si, può sembrare una follia, ma era un’occasione unica e non potevo lasciare che la mia paura di incontrarlo mi impedisse di realizzare i miei progetti.
L’appartamento ha trenta anni e ogni tanto l’età si fa sentire: parquet che si alza, piastrelle che cadono e altro ancora. Il mio sogno è quello di poterlo ristrutturare.
Qualche mese dopo che mi fui trasferita, andando al lavoro in bicicletta fui investita da un auto e finii in ospedale. Un taglio in testa e una vertebra lombare rotta. Seguì un lungo periodo di immobilità, riabilitazione, busto ortopedico e incontri con l’avvocato per il risarcimento. Mia madre chiamò mio padre per raccontargli l’accaduto. Avrei voluto che non lo facesse.
Così lui rientrò nella mia vita. A forza. Si presentò in ospedale e voleva portarmi a casa con se. Per fortuna mia madre non era dello stesso avviso e mi portò a casa sua. Nel frattempo mia nonna, con l’Alzheimer che progrediva, era andata a vivere con mia madre.
Di quei giorni ricordo i pianti, l’umiliazione di dover chiedere aiuto al compagno di mia madre per urinare, proprio lui che alcuni anni prima ci aveva provato con me!
Ricordo il dolore e l’immobilità, ricordo la frustrazione di non essere autosufficiente e di pesare su mia madre. In quel periodo non potevo vomitare ma non ne sentivo il bisogno.
Avevo altro a cui pensare.
In quei giorni compii ventidue anni e mio padre venne da me con dei biscotti e un libretto al portatore a mio nome. Patetico.
In tutto quel periodo, durato tre mesi, non potevo lavorare ma per non lasciare l’ufficio nel caos il titolare mi portava il lavoro a casa di mia madre e mi dotò di un computer portatile.
Fu un impegno che i titolari vollero premiare regalandomi un viaggio in Egitto alla mia guarigione. Così per la prima volta presi l’aereo e volai laggiù da sola. Fu un esperienza unica.
Così ormai la frittata era fatta e i rapporti con mio padre furono riallacciati. Cominciò a volere che andassi a mangiare da lui, criticò la mia scelta di fare un mutuo e come avevo disposto i mobili di casa.
Naturalmente continuava a controllarmi. Persino i nuovi vicini se ne accorsero. Mi vergognavo tanto!
Un giorno incontrai il mio ex ragazzo che mi disse che mio padre lo avevo fermato chiedendogli di me. Ho dovuto scusarmi con lui per il comportamento di mio padre e di nuovo provai vergogna.

Finché un giorno che ero a casa sua non mi diede una specie di santino, dicendomi che mi sarebbe servito perché ero drogata e andavo a letto con il mio titolare.
Non ci vidi più. Io, che mi spaccavo la schiena, che lavoravo di sera due volte la settimana per guadagnare il rispetto dei titolari e qualche soldo in più, non potevo permettermi molte cose per poter pagare il mutuo e lui veniva a dirmi quelle cose?
Cercare di scappare ma lui mi prese per i polsi, ricordo che riuscii a liberarmi e a correre via. Arrivai a casa, saltai in macchina e mi diressi verso casa di mia madre.
Su un rettilineo mio padre mi piombò alle spalle e dovetti fermare l’auto sul ciglio della strada per non finire dentro il fosso. Mi chiusi dentro l’auto. Lui cercava di entrare da tutte le porte. Io piangevo, urlavo e non vedevo nulla. Ero sconvolta. Cercai con il cellulare di chiamare i carabinieri ma non riuscivo a ricordarmi il numero. Allora chiamai mia madre, che sentendomi sconvolta, chiese al compagno di venire subito da me. Ironia della sorte.
Nel frattempo aprii un finestrino per chiedere aiuto ai passanti ma mio padre infilò dentro una mano, aprii la sicura e si sedette nel sedile del passeggero. Anche lui piangeva, ma erano lacrime di coccodrillo, pensai. Diceva che stava male di cuore. Io non ricordo cosa gli dissi esattamente. Ricordo solo che urlai e piansi finché non arrivò mia madre con il suo compagno. Provavo odio puro.
Riuscirono a farmi uscire dall’auto e mia madre parlò con mio padre. Non so cosa gli disse ma lui se ne tornò a casa e io mi rifugiai alcuni giorni da mia madre. Da quel momento decisi che non avrei mai più incontrato mio padre.
E così è tuttora, anche se a volte lo vedo che fa la ronda attorno al mio palazzo e all’ufficio dove lavoro.
Mi capita a volte di sognarlo, di sognare che rientra a forza nella mia vita e non sono certo sogni piacevoli.

Pian piano mi ripresi e ricominciai a vivere la mia vita. Per lunghi periodi non facevo abbuffate e non vomitavo, poi magari entravo in crisi e allora mi sfogavo sul cibo e poi, per paura di ingrassare, rimettevo tutto.

Il lavoro procedeva e mi dava soddisfazioni. Mi piace molto ciò che faccio. Grazie a questo lavoro andai persino all’estero più di una volta. Anche questi viaggi di lavoro furono esperienze preziose.

Un giorno si bloccò la tubatura di scarico del lavello della cucina e mi si allagò casa. Di nuovo ebbi a che fare con le assicurazioni e ricevetti un piccolo risarcimento. Purtroppo la mia cucina non è più stata la stessa da allora! Però misi da parte e investii una piccola somma per il mio futuro, che mi permise anche di aiutare mio fratello in un momento in cui aveva bisogno di liquidi.

Nel frattempo saltò fuori il vizietto del compagno di mia madre. Ci provò con la testimone di nozze di mia cognata e venne tutto a galla.
Mio fratello e mia cognata erano sconvolti ma io non ero sorpresa e gli raccontai di cosa mi era successo tempo prima. Lo raccontai a mia madre ma lei lo difese dicendo che avevo capito male. Luio regolarmente conosce donne in difficoltà a cui si avvinghia ma mia madre lo difende tuttoggi. Anche con una bambina una volta.

Poco prima dell’incidente, avevo iniziato un corso di disegno tecnico, ma proprio a causa dell’incidente non potei più seguirlo. Così a settembre, dopo essermi ripresa, cominciai un altro corso serale di disegno tecnico, pagato dalla ditta. Lì conobbi il mio attuale compagno.
Era l’insegnante e ha diversi anni più di me.
Accettai un suo invito al cinema una volta finito il corso e da li iniziò la nostra storia.
Era un po’ di tempo che stavo da sola ed ero contenta che qualcuno mi corteggiasse. Non si può dire proprio che sia piacente ma mi colpirono i suoi occhi azzurri e i suoi modi di fare. Tra l’altro era un ottimo insegnate.
Lui era diverso da tutti quelli che avevo conosciuto fino a quel momento. Nelle nostre uscite non cercava di mettermi le mani addosso e prima di dichiararsi mi fece conoscere sua madre. Direi un uomo d’altri tempi.
Sono quasi tre anni e mezzo che stiamo insieme. Ci siamo inseriti più o meno bene nelle rispettive famiglie. La nostra differenza d’età a volte si fa sentire però devo dire che gli voglio bene, che sono sicura della sua sincerità e che sono certa che lui c’è sempre.
E’ una certezza, un punto fermo nella mia vita vorticosa. Certo se si parla di futuro ho molta paura perché il divorzio nella mia famiglia è quasi una tradizione e perché con la bulimia, non so se potrei crescere con figlio come si deve. Per ora vivo senza fare progetti a lungo termine.
A lui parlai subito della bulimia. Anche lui aveva familiarità con gli psicologi, per cui credo che fu più facile per lui accettare la mia malattia.
Certo non capisce e fa fatica a convivere con tutto ciò che la bulimia comporta. A volte mi chiede se ho vomitato perché vede le tracce in bagno e questo un po’ mi da fastidio, ma almeno si preoccupa per me.
Certe volte anche il mio rapporto con lui mi crea tensione e mi porta a sfogarmi sul cibo e, come dico io, ad abbracciare la tazza del water.
A volte abbraccio più il water che il mio ragazzo. Ho un po’ di problemi con i contatti fisici.
La bulimia torna sempre a ondate nella mia vita. Non sono ancora riuscita a liberarmi del tutto.
Un paio d’anni fa con parte dei soldi avuti per l’incidente e il problemino con le tubazioni decisi di operarmi agli occhi per togliere gli occhiali. Il mio ragazzo mi accompagnò. L’operazione con il laser in realtà non fu molto fastidiosa, ma i giorni successivi furono una tortura. Però ora vedo oltre dieci decimi e mi sento libera.

Nel corso degli anni feci nuoto, step, palestra ma sempre per colpa della vertebra rotta dovetti scegliere un’attività più soft. Così mi iscrissi ad un corso di pilates e fu una vera scoperta. L’insegnante era fenomenale! Nel frattempo contattai un nutrizionista e cercai con il suo aiuto di perdere i chili accumulati durante il riposo forzato post incidente.
Soffrivo e soffro tuttora di frequenti mal di schiena, dovuti alla frattura mal saldata alla vertebra.

L’anno passato ho avuto un periodo duro, pieno di eventi poco piacevoli. Il compagno di mia madre ha la mani bucate e qualche volta deve vedersela con la legge. Mio fratello e mia cognata hanno deciso di fare casa, si sono rivolti alla ditta per cui lavoro e a metà cantiere mio fratello se n’è andato via di casa, tornando a vivere con mia madre. Mia nonna non più autosufficiente è tornata in casa di riposo e a stento riconosce i familiari. Io mi sentivo tutto addosso. Ero anche in tensione perché mio fratello aveva dei debiti con la mia ditta e mi sentivo responsabile.
Mi sentivo come Atlante, che regge sulle spalle il peso del mondo. In certi momenti vedevo le mie amiche che lavoravano e vivendo con i genitori, potevano comprarsi la macchina nuova e fare viaggi all’estero. Poi guardavo quelle che erano all’università e volevo anche io poter studiare. Insomma ero invidiosa marcia.
Per non farmi mancare niente cercai un mutuo migliore, per pagare meno, e feci da cavia per una dei primi accolli previsti dal Ministro Bersani. Furono giorni difficili che misero la mia pazienza a dura prova. Non so se alla fine ho fatto un buon affare.
Tutto questo ovviamente mi portava a sfogarmi con il cibo e poi nella tazza del water.

Così il mio terapeuta mi suggerì il ricovero in una struttura appropriata. Non era la prima volta che me lo proponeva ma io avevo sempre rifiutato con terrore. Non riuscivo a staccarmi dal lavoro, dal mio ragazzo, dai problemi. Come faranno senza di me, pensavo.

Finché in primavera dello scorso anno fui io a chiedere il ricovero. Avevo bisogno di staccare la spina, di andarmene e di essere aiutata.

Fu così che arrivai in una residenza protetta. All’inizio avevo paura, mi sentivo spaesata, sola, a disagio. Ma con il passare dei giorni questo posto immerso nel verde diventò la mia casa.

Non ero ricoverata in reparto ma in day hospital. Vivevamo in 7-8 in due appartamenti in centro città. La mattina partivamo con la corriera e arrivavamo alla residenza, mentre la sera tornavamo giù in taxi.
Le nostre giornate era scandite da rigidi orari per i pasti, attività di gruppo, colloqui individuali e momenti liberi in cui potevamo fare ciò che volevamo. Non voglio raccontare nei dettagli ciò che si faceva, perché ciò che succede dentro la residenza protetta deve rimanere lì dentro, è una cosa nostra. E’ un luogo protetto, un nido.

Alla residenza ho conosciuto innanzi tutto uno staff meraviglioso di dottori, dietiste, psicologhe, infermieri, operatori socio sanitari e animatrici. Tutti a modo loro incredibili e fantastici, severi a volte e divertenti altre. Penso spesso a tutti loro.
Ma più di ogni altra cosa mi sono sentita capita, a casa, perché tutti lì dentro, in day hospital o in reparto avevamo problemi simili. Eravamo tutti diversi eppure così uguali. Non ci giudicavamo in base al nostro peso o in base ai nostri comportamenti alimentari.
Ho visto cose terribili e vissuto il dolore, ma ho anche visto crescere amicizie profonde.
Saranno sempre nel mio cuore: la ragazzina dalla voce d’angelo, la ragazza bionda così forte e così fragile, una limpida come l’acqua, l’altra così spirituale, un’altra ancora simpaticissima, per non parlare della mia dolcissima compagna di stanza. Poi l’artista, la giornalista, la ballerina, l’estetista, la studentessa, la moglie, la madre. Ogni volta che una di noi andava via eravamo tristi, perché nella convivenza forzata erano comunque nati legami forti.
Ho conosciuto persone meravigliose, dolcissime, profonde, sensibili, sole, incomprese, delicate.
E’ strano, quando ero lì mi mancava casa e volevo andare via e una volta uscita invece, volevo tornarvi.

Ho lasciato in quella residenza un pezzetto del mio cuore. Mentre ero lì ho smesso di vomitare, ho cominciato a mangiare bene, a cucinare qualche semplice piatto, ad esprimere i miei sentimenti. Nei fine settimana tornavo a casa e a volte vomitavo ancora.

Sono felice di aver mantenuto i contatti con alcune delle ragazze che ho conosciuto in quelle lunghe settimane.
Di quei giorni ricordo le lacrime, le risate, i piccoli intrecci, gli abbracci e i litigi. Non era facile vivere sempre sotto controllo. Se quelle colline potessero parlare racconterebbero milioni di storie diverse eppure tutte uguali.

Spero un giorno di poter tornare là per salutare e ringraziare tutti.
Questo periodo di distacco mi ha aiutato a capire molte cose, a fare ordine nella mia vita e mi ha permesso di fare scelte molto importanti.

Già, una volta uscita di lì ho deciso che volevo studiare e sto studiando per prendere il mio secondo diploma. Mi accontento anche di uscire con un voto più basso della prima maturità!
Sono tornata a lavorare e tre sere a settimana e il sabato mattina vado a scuola. Studio quando posso e mi sembra che i miei risultati sono buoni. Sto facendo due anni in uno privatamente, per poi seguire la quinta serale in una scuola pubblica. Tra qualche mese ci sarà l’esame di integrazione. Incrocio le dita!!!!!

Mio fratello e mia cognata si stanno separando ufficialmente e con un mutuo da pagare non è facile. Sapendo poi come ci si sente quando i genitori si separano, cerco di passare più tempo con il mio nipotino. Per aiutare mio fratello ho anche disinvestito una parte della somma che avevo messo da parte e glieli ho prestati. Ero sicura che me li avrebbe restituiti e così è stato. Devo dire che quando ha saldato il debito con la mia ditta ho tirato un sospiro di sollievo.

Dato che non sono abbastanza impegnata ho iniziato a fare l’amministratrice di condominio, per arrotondare un po’. Per ora ho in gestione solo un piccolo condominio ma me la sto cavando benino. Presto ne gestirò un altro, un pochino più impegnativo.
Insomma sono sempre iper impegnata. Dato che mi avanza del tempo libero ogni tanto, in casa con me vivono due gatti tremendi, che mi tengono compagnia. Il mio ragazzo viene da me il fine settimana.

Però mi sento viva. Solo mangiando regolarmente ho la forza e lo stato d’animo per poter portare avanti tutto questo.

Non posso dire di essere guarita completamente. A volte vomito ancora, specialmente se sono sotto stress e quando lo faccio poi il mio corpo ne risente e fatico a fare qualsiasi cosa. Inoltre ho i capelli e le unghie rovinate, soffro di stipsi e perdite ematiche. Insomma, il mio corpo ha subito dei danni, che solo smettendo di vomitare guariranno.
Non so se la bulimia mi abbandonerà del tutto un giorno. A volte guardo la mia farfalla tatuata e mi ricordo perché l’ho fatta. E’ uno stimolo.
Eppure con il tempo e grazie alle persone che hanno saputo aiutarmi oggi ho gli strumenti per combattere la malattia, so quali sono le situazioni e i comportamenti a rischio e so che devo trovare altri modi per sfogare lo stress.

Ad esempio ho iniziato ad andare a correre. Niente di impegnativo, mezzora tre volte a settimana per stare da sola, fare qualcosa per me, sfogarmi, rilassarmi, godermi il paesaggio e anche della buona musica. Inoltre la corsa mi aiuta a soffrire meno di mal di schiena. Il mio obiettivo è quello di arrivare agli appuntamenti con il mio terapeuta senza il fiatone per le scale appena salite.

Si, perché in ogni modo il mio doc rimane il mio punto di riferimento, colui che mi indica quali degli strumenti che ho a disposizione posso usare per stare bene.
Il mio percorso non è finito, però credo di poter affermare che sono a buon punto.
Ecco, io ho finito di raccontare di me. In realtà ho tralasciato molte cose, più o meno consapevolmente.
Quello che voglio dire è che si può guarire. Dobbiamo imparare ad amare noi stessi e a chiedere aiuto, quando ce ne bisogno. Non c’è nulla di male in questo.
Vorrei inoltre concludere sottolineando che la bulimia, l’anoressia e in generali i disturbi alimentari non sono capricci o manie dettate dalla moda del momento.
I disturbi alimentari sono vere e proprie malattie, che coinvolgono mente e corpo. Vanno curate e le persone che ne soffrono vanno aiutate, seguite, capite ma soprattutto amate. Mai giudicate.

Un abbraccio sincero.

METAMORFOSI

Ero in una clessidra
imprigionata dal tempo.
Ogni secondo era un grosso granello di sabbia
che cadeva pesante
bloccandomi sempre più
soffocandomi.
Ho rotto la clessidra
ho lasciato la sabbia alle spalle
ho ripreso a respirare.
Ero un burattino
un pezzo di legno legato a dei fili
se mi ribellavo
s’attorcigliavano, m’avvinghiavano.
Ho tagliato i fili
ed ora sono libera di correre nel vento.
Ero smarrita in un labirinto di specchi
confusa da mille immagini di me ………
Ho spaccato tutto e ritrovato me stessa.
Ho ricominciato a sognare
a sorridere alla vita
quando sembrava finita
ho iniziato a volare

(Poesia scritta da una ragazza uscita dall’anoressia)
Forse più di molte parole, la delicatezza di questi versi lievi testimonia che guarire dall’anoressia si può, e che davvero la guarigione fa entrare in una nuova vita, in cui si può iniziare a volare.

Testimonianza ricevuta da Adao Friuli
Buonasera, sono Antonio, papà di Elena. Questo mese, essendomi accorto dello scorrere del tempo non subito dopo l’appuntamento mensile, ma il giorno prima… non potevo non fermarmi due minuti e provare a farvi avere questi miei semplici pensieri. MI spiace essere sparito in questo modo, ma per diverso tempo ho pensato e sperato di poter trovare il modo di passare almeno a salutare… ma forse è arrivato il momento di mettere un punto.

Elena sta abbastanza bene, passa molto tempo a Verona dove frequenta Fisioterapia (ma vuole riprovare il test di medicina… e noi siamo dalla parte dei suoi desideri) e anche se non è tutto a postissimo sta facendo passi da gigante e si tiene in contatto (proficuamente) con la dottoressa che l’ha in cura. Vorrei che mi crediate se vi dico che avrei voluto continuare a frequentare il gruppo, sia perché non mi sembrava bello andarmene subito dopo l’emergenza sia perché mi sono trovato davvero bene. Il problema è che Tommaso sta attraversando un lungo periodo “problematico” e il dopocena è un momento particolarmente critico. Anche se una serata può sembrare qualcosa di facilmente organizzabile non sempre è così, e non me la sento di lasciare Tommaso con la mamma anche se è per una buona causa perché parliamo di un ragazzone che quando è un po’ agitato è meglio che abbia davanti qualcuno di stazza paragonabile… Non voglio nemmeno che passi del vittimismo da parte mia: ce la stiamo mettendo tutta e bene o male si va avanti, ma ogni piccolo impegno extra diventa davvero difficile da gestire e bisogna fare delle scelte.

Non vorrei dirvi addio, ma non mi sembra nemmeno corretto lasciare in sospeso in questo modo. Vorrei rinnovare il grazie alle persone che ho incontrato, da quelle “storiche” che svolgono un ruolo insostituibile, alle psicologhe e ai compagni di avventura che ho avuto modo di conoscere: da tutti ho ricevuto qualcosa di importante. Vorrei restituirvi il messaggio di positività con cui mi avete accolto, perché lo rilanciate sempre ai nuovi arrivati: è una strada lunga e in alcuni momenti molto dura, ma se si è aiutati bisogna avere fiducia che le cose si possono sistemare, anche negli aspetti che si immagina pregiudicati per sempre.

Un caro saluto

Antonio

Testimonianza di Monica Zuccato
PAURA DENTRO
Ora che tutto è finito, a volte, ho difficoltà a confrontarmi con la realtà.
A volte mi guardo allo specchio e mi rendo conto che ancora non so chi sia la donna che vi si riflette.
Poi guardo mio figlio e mi dico che qualcosa di buono ho fatto, che mi aspetta un compito importante: crescerlo, educarlo e indirizzarlo alla vita.
Non posso perdermi ancora in stupidi giochi mentali, vagabondaggi dentro me stessa e la mia anima, distorsioni della mia immagine.
Chi sono io veramente? Mi sono bastati anni di sofferenze per approdare alla fine di questa ricerca, oppure è stato tutto inutile, assolutamente vano, il vuoto? Mi sveglio ancora, la notte, a volte. Fatico a riemergere da un incubo che ha popolato notti e giorni della mia esistenza: mi vedo ancora là, che mangio e mangio, la mia pancia che si riempie fino a scoppiare, la mia testa che non riesce a tener dietro al corpo, a quelle mani che si impadroniscono di cibi qualsiasi e li portano alla bocca, e li esauriscono poi, espellendoli in un’ansia che è quasi panico: paura dentro.
Paura di tenere dentro tutto quel cibo, quella vita che non è vita ma che vuole esplodere fuori perché è tempo di crescere, di vivere, di prendersi a piene mani attimi che volano via.
E fuori essere come se niente fosse: una maschera. Recitare una parte, metterci l’impossibile e capire che è una causa persa, che non ce la farai mai, che non hai più il controllo su tutta questa assurda, grottesca e quasi surreale situazione, iniziata per gioco.
È assurdo, grottesco e surreale vedersi e percepirsi sdoppiata in due, una parte di te che vede l’altra annaspare, lottare, tormentarsi. E non riuscire a capire qual è la parte giusta, quella che vorresti tenere, costruire, coltivare, quella che vorresti che gli altri amassero ed apprezzassero.
Come faccio oggi a spiegare che cosa significa vivere e insieme non vivere?
Ho sperimentato il malessere di vivere da sempre.
Non mi sono mai sentita come gli altri. Ero e mi vedevo diversa: non andavo mai bene, non ero mai apposto, non avevo mai il coraggio, non ero mai “abbastanza”.
Tutta la mia infanzia è una storia di paura dentro: paura di tutto, degli altri e di me stessa, di non riuscire, del buio, del chiuso, di non capire, di non poter parlare …
Questa paura mi attanagliava lo stomaco, mi stava dentro come una serpe avvoltolata su se stessa le cui spire mi stringevano fino a togliermi il fiato. Non riuscivo ad urlarla, spingerla fuori, stritolarla, romperla, farla in mille pezzetti e buttarla per aria a disperdersi per sempre!
La formidabile forma di controllo che sperimentai con l’anoressia certo mi aiutò ad acquisire la sicurezza in me stessa che non avevo mai avuto in condizioni normali. Era una sensazione d’incredibile potenza dominare la vita biologica del mio corpo, farlo restringere a poco a poco e modellarlo a mio piacimento: via la pancia, via il seno, via i fianchi, via tutto ciò che poteva qualificarmi un essere, una donna e quindi darmi la possibilità di crescere e maturare.
Mi scrutavo allo specchio e spiavo le reazioni; la mia parte razionale si vedeva magrissima, uno scheletro ricoperto da poca carne e sentiva paura dentro per ciò che avrebbe potuto succedere.
Ma l’altra parte si sentiva invincibile, inavvicinabile, distorceva la realtà e si convinceva che quell’anomala magrezza era bella, attraente e mi conduceva lungo strade dalle quali avrei potuto poi retrocedere a fatica e non senza aver pagato un prezzo davvero esorbitante.
La mia famiglia andò per aria: nessuno capiva ciò che mi stava succedendo e, se in un primo tempo tutti si preoccupavano perché non mangiavo più, perché dimagrivo, alla lunga poi non riuscirono più a sopportare una situazione che interessava tutti, che non concedeva scampo a nessuno.
Era bello, all’inizio, giocare con tutti questi personaggi come burattini; provavo l’incredibile sensazione di essere io a manovrare le sorti di tutti quanti, di poter decidere per tutti. Fingevo sempre di star male e tutto andava, come per incanto, secondo i miei desideri, purché guarissi, purché stessi meglio.
Il gioco poi divenne più grande di me, assunse proporzioni inimmaginabili per tutti noi e mi ritrovai prigioniera di un meccanismo che avevo inventato io: la sensazione di potenza scomparve dalla mia vita e mi sentii in balia degli eventi. Sapevo solo che il cibo aveva su di me un effetto anestetizzante, che era una panacea per tutti i miei mali. E mangiavo senza darmi tregua mentre il mio corpo lentamente si avviava verso una decadenza che non era soltanto motivata dal tempo che trascorreva inesorabile.
Avevo bisogno del cibo per far tacere la mia paura dentro, quella paura che non se ne era mai andata, che pensavo ormai non se ne sarebbe andata più. I miei denti, i miei capelli, le mie unghie, la mia pelle; le tracce del tempo e della malattia mi segnavano indelebili rovinando l’immagine di perfezione fisica cui avevo voluto aspirare all’inizio di tutta la mia storia.
E la solitudine mi ammazzava il cuore. A volte ci si può sentire tremendamente soli in mezzo ad una moltitudine di gente sapendo di portarsi un segreto dentro e non poterlo rivelare, di non poter dire a nessuno che stai male, che non ce la fai più, che vorresti una tregua, che vorresti magari morire perché tutto finisca, perché non ci sia un nuovo giorno con nuovi tormenti. La solitudine non la sopportavo; mi metteva sempre davanti gli altri con le loro vite “normali”, con le loro gioie ed i loro dolori veri ed autentici.
Mentre tu vivi una vita di carta, di nulla, e li guardi, li scruti, li invidi perché vorresti essere come loro, vorresti poterti sedere davanti ad un piatto e nutrirti e non lottare sempre con il cibo.
Il cibo… chi penserebbe mai che esso possa essere insieme fonte di vita e di morte.
Perché la morte io l’ho rischiata tante e tante volte.
Mi sentivo come invisibile a volte, senza consistenza, aerea. Un piatto pieno, un piatto vuoto, un piatto pieno, un piatto vuoto, spesso neppure un piatto.
E mangiare, mangiare dovunque, mangiare sempre, in qualsiasi momento. Prima di un colloquio importante, prima di un incontro cui tieni, prima di un esame, prima di … prima di tutto viene sempre il cibo e tu ti perdi in lui.
È possibile che tutto questo sia fondamentalmente egoismo?
Non ho mai potuto rispondere a questa domanda che penso di essermi posta almeno un milione di volte.
So soltanto che mi sono tenuta accuratamente alla larga dai sentimenti per anni, per paura di soffrire, di dire, di dover raccontare, di buttar fuori la mia paura dentro.
E per anni non ho avuto qualcuno da amare ma questo tuttavia non deve stupire. Come si può amare un’altra persona se per primi non sappiamo amare noi stessi? E quale strana forma di amore ci prodighiamo, se pretendiamo di volerci bene al punto di maltrattarci tanto?
Prima di amare qualcuno ho dovuto crescere ed imparare a convivere con la mia paura, ho dovuto imparare a fidarmi di me stessa, prima, e di un uomo poi.
Ho dovuto imparare a mettere tra le mani del mio compagno di vita tutti i miei anni di paura dentro: mi sono detta che forse sarebbe scappato ed avrei sofferto. Allora avrei avuto la certezza che non mi meritava.
Ma non è andata così ed ho imparato ancora che si temono le cose che non si conoscono.
Non si deve aver paura di vivere; anche se a nessuno è dato conoscere il proprio futuro abbiamo il dovere di vivere il presente perché la vita è un dono prezioso. La mia battaglia è durata un’intera vita, per certi versi dura ancora ma non mi sento di avere perso.
Se oggi guardo mio figlio so che non ho lottato inutilmente e ciò basta a lenire il dolore ed il rimpianto per anni perduti, buttati al vento, vissuti male o forse non vissuti.
E da lontano – quasi da un’altra dimensione – ora guardo, scruto, il fagotto informe della mia paura dentro. Ma non può più farmi alcun male.
Monica Zuccato
Treviso-Pordenone 15 marzo 2018

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